Lo smart working non è la soluzione: le persone con disabilità restano svantaggiate anche lavorando da casa
In pre-pandemia lo smart working era appannaggio dei manager, un ruolo raramente ricoperto dalle persone con disabilità. La pandemia ha eliminato le distinzioni gerarchiche imponendo a tutti di lavorare da casa. Ma non c’è da illudersi: il lavoro da remoto non è la soluzione per l’inclusione
Smart_working.jpg

Lo smart working non è la livella che rende tutti uguali. Le persone con disabilità continuano a sentirsi svantaggiate anche nella nuova modalità di lavoro post-pandemica da remoto. A dimostrarlo è uno studio pubblicato sul British Journal of Industrial Relations e diffuso oggi 3 dicembre in occasione della Giornata Mondiale della Disabilità. I ricercatori della Warwick Business School e della Bayes Business School sono partiti dallo scenario pre-pandemico. E analizzando i risultati di un’indagine nazionale condotta nel Regno Unito nel 2013 per valutare il benessere dei lavoratori, dal titolo Workplace Employment Relations Survey, hanno scoperto che le persone con disabilità avevano minori possibilità di lavorare da casa di quante non le avessero le persone senza disabilità.
È un dato che dice molto: lo smart working, prima della pandemia, era generalmente riservato ai manager o ai professionisti con incarichi dirigenziali o comunque alle persone in posizioni lavorative gerarchicamente elevate. È raro che una persona con disabilità arrivi a quei livelli di carriera ed è per questo che i lavoratori da remoto con disabilità sono sempre stati pochi.
La pandemia ha eliminato, almeno in parte, questa disparità di trattamento, ampliando di molto la lista dei lavori che possono essere svolti a distanza consentendo così anche a chi non aveva incarichi manageriali di svolgere le proprie mansioni da casa. Il numero delle persona con disabilità in smart working è improvvisamente aumentato eguagliando i livelli della popolazione generale. Ma non è servito a molto. Le disparità rimangono.
L’impatto dello smart working, infatti, è stato meno positivo per le persone con disabilità rispetto a quelle senza.
Dovendo esprimersi sulla soddisfazione nel lavoro, sul benessere mentale, sulla capacità di gestire vita privata e professionale, le persone con disabilità si dichiarano meno appagate di quelle senza disabilità.
«Lavorare da casa può avere implicazioni sia negative che positive per le persone disabili. Ad esempio, se le rende meno visibili, i datori di lavoro potrebbero essere meno spinti a rimuovere le barriere sul luogo di lavoro e potrebbe rendere più difficile sfidare gli stereotipi negativi dei dirigenti riguardo ai tipi di lavoro per cui sono disposti ad assumere persone disabili», dichiara Nick Bacon, della Bayes Business School, tra gli autori dello studio.
Secondo i ricercatori sono ben altre le iniziative che potrebbero aumentare l’inclusione delle persone con disabilità. A partire dall’eliminazione del divario occupazionale.
Nel Regno Unito attualmente poco più del 50 per cento delle persone disabili in età lavorativa nel Regno Unito è impiegato, rispetto a circa l’80 per cento delle persone non disabili.
«Pertanto, la nostra analisi mette in dubbio le potenzialità dello smart working per ridurre lo svantaggio della disabilità all'interno delle organizzazioni e sottolinea la necessità di un'azione più sostanziale per affrontare le barriere all'occupazione che incontrano le persone disabili», concludono i ricercatori.