Il dubbio. I farmaci per la prostata ingrossata possono danneggiare il cuore?
Uno studio suggerisce la presenza di una associazione tra l’uso prolungato di alcuni farmaci per l’ingrossamento della prostata e lo scompenso cardiaco. Non vuol dire che i pazienti debbano smettere di assumerli, ma che i medici debbano monitorare la salute cardiaca dei loro assistiti
I farmaci per l’iperplasia prostatica benigna, un ingrossamento della prostata non canceroso, potrebbero aumentare le probabilità di sviluppare lo scompenso cardiaco. Lo suggerisce uno studio pubblicato sul Journal of Urology, rivista dell'American Urological Association (AUA).
A rischiare di più sono gli uomini che assumono un tipo di medicine chiamate alfa-bloccanti, mentre chi segue una terapia con gli inibitori della 5-alfa-reduttasi corre un pericolo minore. Il che non significa, ci tengono a precisare gli autori dello studio, che gli uomini debbano smettere di prendere i farmaci che gli sono stati prescritti, ma che i medici debbano monitorare con maggiore attenzione la salute cardiaca dei loro pazienti.
Non è la prima volta che viene viene evidenziata una possibile associazione tra i farmaci per l’iperplasia prostatica e l’insufficienza cardiaca. Ma la correlazione è difficile da dimostrate perché entrambe le condizioni, quella urologica e quella cardiaca, sono spesso presenti contemporaneamente in persone anziane e non è semplice valutare qual è l’impatto dei farmaci.
Il nuovo studio che si avvale di grandi numeri cerca di chiarire la questione. I ricercatori hanno raccolto i dati di 175mila uomini over 66 con una diagnosi di iperplasia prostatica benigna. Di questi, 55mila erano in terapia con gli alfa-bloccanti, 8mila con gli inibitori della 5-alfa-reduttasi e 41mila con entrambi i farmaci (spesso sono dati in combinazione). Il resto del campione non assumeva alcuna medicina.
I pazienti sono stati seguiti per circa 10 anni. Alla fine del periodo di osservazione è emerso che gli uomini che assumevano farmaci avevano maggiori probabilità di sviluppare insufficienza cardiaca rispetto a quelli che non li assumevano. In particolare, il rischio di andare incontro a scompenso cardiaco era aumentato del 22 per cento negli uomini che assumevano solo alfa-bloccanti, del 16 per cento in quelli che assumevano la terapia combinata e del 9 per cento in quelli che assumevano solamente gli inibitori della 5-alfa-reduttasi rispetto al gruppo di controllo composto da uomini che non assumevano farmaci per l’iperplasia prostatica benigna.
Gli scienziati sono riusciti a dare indicazioni ancora più precise dimostrando che i farmaci alfa bloccanti di vecchia generazione “non selettivi” sono più rischiosi di quelli di nuova generazione “selettivi”.
Inoltre il rischio di sviluppare scompenso cardiaco aumenta con la durata della terapia: i più esposti sono quindi gli uomini che fanno un uso prolungato degli alfa bloccanti non selettivi (oltre i 14 mesi).
I risultati dello studio devono essere interpretati tenendo conto della differenza tra dati statistici e dati assoluti. Gli autori sottolineano che l’associazione tra i farmaci e lo scompenso cardiaco è significativa sui grandi numeri, ma per il singolo individuo il rischio è relativamente basso. Altri fattori di rischio come ipertensione e diabete hanno un impatto senza dubbio maggiore dei farmaci sulla salute del cuore.
Inoltre potrebbe darsi che il confronto con il gruppo di controllo nello studio non sia del tutto indicativo. Gli uomini che non assumono farmaci potrebbero avere una forma di iperplasia prostatica meno grave, il che potrebbe avere un effetto anche sulla salute del cuore.
«Il nostro studio suggerisce che gli uomini che assumono alfa-bloccanti e /o inibitori della della 5-alfa-reduttasi hanno maggiori probabilità di ricevere una diagnosi di insufficienza cardiaca. Questa è una scoperta importante, dato che l’iperplasia prostatica benigna è tanto diffusa tra gli uomini anziani e che questi farmaci sono così ampiamente usati. Poiché gli uomini possono prendere questi farmaci per diversi anni, è importante che i medici, sia i medici di base che gli urologi, siano consapevoli di questo rischio, soprattutto nei pazienti con precedenti malattie cardiache o fattori di rischio cardiovascolare», commentano gli autori dello studio.