Alzheimer, biomarcatori nel sangue possono svelare la malattia 10 anni prima della comparsa dei sintomi
Uno studio su Brain suggerisce che la proteina GFAP nel sangue sia indicativa di alcuni cambiamenti biologici nel cervello associati all’Alzheimer. Così la diagnosi potrebbe arrivare dieci anni prima della comparsa dei sintomi
Drawing_Test_tubes_different_colors.jpg

Arrivare a riconoscere l’Alzheimer prima della comparsa dei sintomi è una delle più importanti sfide della medicina degli ultimi tempi. Ci si prova da anni, senza successo. Ora forse il traguardo è più vicino grazie alla scoperta di alcuni biomarcatori nel sangue indicativi della malattia degenerativa in assenza delle manifestazioni più evidenti, come la perdita di memoria. Con questo test il responso, positivo o negativo, si avrebbe dieci anni prima della comparsa dei sintomi.
Se la strategia diagnostica messa a punto dai ricercatori del Karolinska Institutet e descritta su Brain dovesse rivelarsi effettivamente applicabile, saremmo di fronte a una svolta. La diagnosi precoce dell’Alzheimer permetterebbe un doppio vantaggio: da una parte consentirebbe di rallentare il decorso della malattia intervenendo con strategia mirate prima che sia troppo tardi e dall’altra offrirebbe la possibilità di reclutare i partecipanti ideali dei trial clinici, persone affette dalla malattia ma senza danni irreversibili, i candidati perfetti su cui testare l’efficacia di nuovi farmaci.
Il marcatore associato agli stadi iniziali dell’Alzheimer appena scoperto è la proteina GFAP (proteina fibrillare acida della glia) che, secondo gli autori dello studio, è indicativa dell’attivazione di specifiche cellule immunitarie del cervello che avviene molto tempo prima dell’accumulo della proteina tau e di un danno neuronale misurabile.
«In futuro la proteina GFAP potrebbe essere utilizzata come biomarcatore non invasivo dell'attivazione precoce di cellule immunitarie come gli astrociti nel sistema nervoso centrale, favorendo così lo sviluppo di nuovi farmaci e la diagnostica delle malattie cognitive», dichiara Charlotte Johansson, a capo del Department of Neurobiology, Care Sciences and Society del Karolinska Institutet, in Svezia, a capo dello studio.
Nella malattia di Alzheimer le cellule nervose del cervello vengono danneggiate in conseguenza dell’accumulo delle proteine beta-amiloide e tau. Più aumentano i neuroni danneggiati e più diventano evidenti i sintomi del declino cognitivo, perdita di memoria e difficoltà di linguaggio. Ma questi fenomeni rappresentano solo la coda della malattia. I cambiamenti biologici nel cervello possono iniziare anche 20-25 anni prima della comparsa dei sintomi.
I ricercatori del Karolinska Institutet, in collaborazione con i colleghi del Landspitali University Hospital in Islanda, dell'Università di Göteborg e dell'University College di Londra nel Regno Unito, hanno analizzato i biomarcatori nel sangue dei cambiamenti patologici molto precoci in pazienti con una forma rara ed ereditaria di malattia di Alzheimer, che rappresenta meno dell’1 per cento di tutti i casi. Se uno dei genitori ha la malattia di Alzheimer causata da una mutazione genetica, i figli hanno il 50 per cento di probabilità di ammalarsi.
Gli scienziati hanno analizzato 164 campioni di plasma sanguigno provenienti da 33 portatori di mutazione e da 42 parenti senza la predisposizione alla malattia ereditaria. I dati sono stati raccolti tra il 1994 e il 2018.
I risultati hanno mostrato specifiche differenze tra i campioni con differenti concentrazioni di alcune proteine del sangue nei portatori della mutazione.
«Il primo cambiamento che abbiamo osservato è stato un aumento della GFAP circa dieci anni prima dei primi sintomi della malattia. Questo processo è stato seguito da un aumento delle concentrazioni di P-tau181 e, successivamente, di NfL (proteina leggera del neurofilamento), che già sappiamo essere direttamente associata all'entità del danno neuronale nel cervello di Alzheimer. Questa scoperta sulla GFAP migliora le possibilità di una diagnosi precoce», afferma Caroline Graff, del Karolinska Institutet, tra gli autori dello studio.