Per la prima volta in Italia somministrata una terapia genica per la distrofia muscolare di Duchenne
Si utilizza una forma ridotta del gene della distrofia associato a un vettore virale che promuove la produzione di una forma più piccola ma funzionale di una proteina, la minidistrofina.
In parole povere è così che funziona la terapia genica genica sviluppata da Pfizer contro la distrofia di Duchenne di cui è iniziata la sperimentazione di Fase III al Centro clinico Nemo pediatrico del Policlinico Universitario Gemelli di Roma.
La distrofia muscolare di Duchenne è causata dall’assenza proprio della distrofina, una proteina che aiuta le cellule muscolari a rimanere intatte e la cui assenza porta invece a una progressiva degenerazione.
«La terapia genica rappresenta un’importante opportunità che si aggiunge alle altre sperimentazioni in corso e opzioni terapeutiche oggi in uso e ai progressi avvenuti dal punto di vista di presa in carico multidisciplinare di questa patologia» sostiene Eugenio Mercuri, professore di Neuropsichiatria infantile alla Cattolica e direttore dell’omonima Unità operativa del Gemelli.
Il trial clinico di Fase III avviato nel nosocomio della Capitale prevede il reclutamento, a livello globale, di 99 pazienti con distrofia muscolare di Duchenne dai quattro agli otto anni, in grado di camminare e in trattamento stabile con steroidi. I piccoli pazienti che prendono parte alla sperimentazione ricevono la terapia genica sperimentale all’inizio dello studio o dopo un anno dal trattamento con placebo. Il follow-up dello studio è di cinque anni, ma i risultati inizieranno a essere analizzati già dopo un anno e si baseranno sui dati di funzionalità muscolare.
«La comunità Duchenne e Becker guarda con grande attenzione e speranza all'avvio di questo trial clinico in Italia» assicura Luca Genovese, presidente di Parent Project, l'associazione di pazienti e genitori di figli con questa patologia rara. «Studi all'avanguardia come questo sono molto attesi ma anche complessi – prosegue - ed è importante che le famiglie e i pazienti siano il più possibile consapevoli del loro funzionamento; in questo le associazioni giocano un ruolo chiave».