Tumore del fegato: identificata la firma molecolare che predice la sensibilità ai farmaci immunoterapici
Offrire la terapia giusta al paziente giusto. L’obiettivo della medicina personalizzata viene raggiunto nel caso del tumore del fegato grazie a due nuovi studi firmati da ricercatori clinici dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCCS di Milano che identificano per la prima volta quali pazienti possono essere sottoposti all’immunoterapia neo-adiuvante (cioè preoperatoria) con alta probabilità di successo.
Nello studio pubblicato su Gastroenterology è stata utilizzata una biopsia prognostica, in grado cioè di prevedere l’efficacia dei farmaci che potrebbero venire somministrati. «Abbiamo voluto però anche indagare la possibilità di utilizzare la biopsia liquida, estraendo cioè i frammenti di materiale genetico tumorale da un semplice prelievo di sangue e questo è stato oggetto dell’altro nostro studio, pubblicato su Gut. I dati ci hanno dimostrato che anche con questo metodo è possibile identificare il 90 per cento dei tumori epatici sensibili ai trattamenti con immunoterapici, con innegabili vantaggi anche per il paziente che viene sottoposto solo a un prelievo di sangue», spiega Vincenzo Mazzaferro, direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Epato-Gastro-Pancreatica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) e professore di chirurgia all’Università di Milano (UniMi).
I farmaci immunoterapici anti-PD1 sono entrati ormai da anni nella pratica clinica per il trattamento del melanoma, del tumore polmonare e di altri tumori solidi, ma nel caso del fegato hanno una efficacia variabile e poco prevedibile.
«La terapia potenzia le capacità immunitarie dell’organismo e fa sì che sul sito tumorale converga un numero importante di cellule immunocompetenti, capaci di riconoscere e distruggere le cellule oncogene. Sappiamo però che solo il 20 per cento dei pazienti risponde a questa terapia, e al momento non si conoscono i meccanismi che ne determinano la sensibilità. Per questo, ora siamo entrati in un’altra fase di studio, cioè quella che ci permetterà di identificare i pazienti che potranno beneficiare dei farmaci immunoterapici ed essere quindi candidabili ad altre cure più radicali, come il trapianto epatico», precisa Sherrie Bhoori, specialista in gastroenterologia ed epatologia della S.C. Chirurgia generale a indirizzo oncologico 1 dell’INT.
L’immunoterapia non è però l’unica strada che in questo momento stanno percorrendo i ricercatori. Un altro recente lavoro pubblicato su Gut, curato da Licia Rivoltini dell’Unità di immunoterapia dell’INT e coordinato sempre da Vincenzo Mazzaferro, ha dimostrato la possibilità di potenziare l’effetto immunologico dei farmaci anti-PD1 con un pre-trattamento. Questi studi non solo ampliano il ventaglio di possibilità di soluzioni terapeutiche per la cura del tumore epatico - attualmente la quinta più frequente causa di morte per cancro a livello mondiale ma possono cambiare l’approccio strategico al trattamento di questa tipologia di tumore.