Emofilia. La ricerca fa progressi, ma restano le carenze dell’assistenza

Giornata mondiale dell'emofilia

Emofilia. La ricerca fa progressi, ma restano le carenze dell’assistenza

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Immagine: © Healthdesk
di redazione
La Federazione delle associazioni dei pazienti emofilici: nonostante le nuove opportunità terapeutiche mancano ancora medici e investimenti per strutturare i Centri e le Reti per le malattie emorragiche congenite

Sono trascorsi dieci anni da quando Stato e Regioni giunsero a definire un accordo sull'assistenza alle malattie emorragiche congenite (Mec). Nel frattempo l’Agenzia europea del farmaco (EMA) ha concesso l’approvazione condizionata a due farmaci di terapia genica per l’emofilia A e per l’emofilia B.

La ricerca farmacologica attraversa una fase per molti versi entusiasmante in termini di efficacia e innovatività e la terapia genica potrebbe essere realtà per molti pazienti a brevissimo. Ma il percorso non è privo di problematicità. Ecco perché FedEmo, la Federazione delle associazioni delle persone emofiliche, in occasione della XIX Giornata mondiale dell'emofilia, lancia un appello alle Istituzioni che operano in sanità affinché destinino maggiori risorse strutturali e umane all’assistenza alle Mec e assicurino una più ampia partecipazione dei pazienti ai processi decisionali.

«Dopo un decennio dalla sigla dell’Accordo Stato-Regioni sull'assistenza alle malattie emorragiche congenite – osserva Cristina Cassone, presidente FedEmo, in occasione dell'incontro promosso a Roma lunedì 17 aprile - la terapia genica per l’emofilia è ormai alle porte e attualmente in fase di registrazione. A fronte di ciò, le problematicità del sistema assistenziale dedicato alla malattia sono invece aumentate, nonostante l’impegno quotidiano dei clinici specialisti. Il post Covid ha visto le Regioni ridurre sistematicamente gli investimenti sui Centri emofilia e sulle professionalità che vi operano». FedEmo chiede perciò «con forza a tutte le Istituzioni che operano in sanità di destinare più risorse strutturali e umane all’assistenza alle Mec – dice Cassone - e un maggior coinvolgimento diretto dei pazienti all’interno dei tavoli tecnici nazionali e regionali di programmazione».

L’emofilia è una malattia genetica caratterizzata dall’incapacità di produrre un adeguato livello di alcuni fattori di coagulazione. La persona portatrice di questa patologia, pertanto, non riesce a coagulare il sangue ed è soggetto a numerose emorragie, anche spontanee, che possono diventare un evento estremamente pericoloso.

A oggi si stima che al mondo ne soffrano circa 400 mila persone, di cui circa 4 mila solo in Italia. Secondo l’ultimo rapporto dell'Istituto superiore di sanità sulle coagulopatie congenite del 2022, i pazienti sono in totale 9.784: circa 30 per cento con emofilia A, 28,6% con malattia di von Willebrand, 7,2% con emofilia B e 34,1% con carenze di altri fattori.

I tipi di emofilia sono due. La “A” è la più comune ed è dovuta a una carenza del fattore VIII della coagulazione; si registra in un caso ogni 10 mila maschi. La “B” (chiamata anche "malattia di Christmas" dal nome della famiglia nella quale è stata identificata per la prima volta) è provocata dalla carenza del fattore IX della coagulazione. L’incidenza è di un caso ogni 30 mila maschi.

Il cromosoma X, portatore del difetto di coagulazione che determina l’emofilia, viene identificato come “Xe”. Nelle donne portatrici di un cromosoma “Xe”, l’altro cromosoma X, non colpito, compensa la produzione di fattore VIII o IX. Poiché non esistono geni per i fattori della coagulazione sul cromosoma Y, i maschi non possono beneficiare di tale compensazione. Ecco perché è raro che una donna sia colpita da emofilia: perché ciò accada, il padre deve essere affetto da emofilia e la madre portatrice sana. Molte donne portatrici possono presentare livelli di fattore della coagulazione relativamente bassi e mostrare i segni di una emofilia “lieve”.

L’evoluzione del trattamento dell’emofilia, negli ultimi anni, ha portato notevoli miglioramenti nella vita del paziente.

Come ricorda Flora Peyvandi, direttrice del Centro emofilia e trombosi “Angelo Bianchi Bonomi” del Policlinico di Milano, un primo progresso nel trattamento dell'emofilia e, conseguentemente, nella vita dei pazienti è stato ottenuto con i prodotti a lunga emivita che hanno permesso in regime di profilassi di infondersi intravena un minor numero di volte. Successivamente, «l’utilizzo di un nuovo farmaco a somministrazione sottocutanea – prosegue Peyvandi - ha reso ancora più semplice la profilassi, soprattutto nei pazienti più piccoli. Ma la svolta nel trattamento dell’emofilia si è ottenuta con la terapia genica: con un'unica infusione è possibile raggiungere la protezione dalle emorragie per diversi anni».

In un futuro ormai prossimo, quindi, questa nuova terapia potrà rientrare tra le opzioni di trattamento a disposizione di tutte le persone con emofilia in Italia.

Servono però medici preparati e infrastrutture più adeguate a gestire l’innovazione terapeutica che la ricerca ha reso disponibile.

«La gestione delle nuove terapie nell'ambito delle sperimentazioni cliniche – sottolinea Giancarlo Castaman, direttore del Centro malattie emorragiche del Careggi di Firenze - richiede una strutturazione articolata da parte non solo del personale medico-infermieristico ma anche di figure ad hoc come i data manager o gli infermieri di ricerca, ancora in gran parte non contemplate negli organici dei Centri, se non per iniziative dei Centri stessi. L'impegno è notevole».

«Consentire l’accesso a farmaci innovativi, a fronte di un impegno di spesa maggiore che richiede immediate coperture, potrebbe, con il tempo, avere effetti virtuosi in termini di riduzione dei costi diretti delle cure e di altre voci di spesa connesse, come i costi indiretti e costi sociali» dice Claudia Santini, dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Come nel caso di terapie geniche, esemplifica Santini, «in cui la rilevanza del prezzo richiesto si associa alla natura one-shot, cioè un’unica somministrazione, per la maggior parte delle terapie, con le conseguenze di costi molto rilevanti nel breve periodo, ma benefici e costi evitati nel lungo periodo, qualora il paziente risponda alle terapie stesse».

Obiettivi resi possibili grazie anche al contributo della ricerca italiana. «Non solo è importante sottolineare che clinici italiani hanno un ruolo chiave nel monitorare i pazienti sottoposti a terapia genica per valutare efficacia e sicurezza – osserva Mirko Pinotti, direttore del Dipartimento biotecnologie dell'Università di Ferrara – ma è da evidenziare come eccellenti ricercatori italiani lavorino per sviluppare “terapie geniche differenti” che includono virus, già usati con successo per altre patologie; e terapie cellulari in cui cellule del paziente vengono isolate, modificate, e reintrodotte. In quest’ultima nicchia si inserisce la ricerca italiana nel campo della correzione diretta del gene difettivo detto “gene editing”. Infine, i nostri ricercatori spesso sono parte di network collaborativi internazionali ed è proprio questa sinergia che apre sempre nuovi orizzonti, e con essi speranze, per i portatori di malattie genetiche come l’emofilia, e non solo».