Spondilite anchilosante: più di tre anni per avere una diagnosi
È lungo, troppo lungo il percorso che i malati di spondilite anchilosante devono compiere prima di ricevere una diagnosi corretta. Il 60 per cento di essi ha dovuto aspettare più di tre anni dalla comparsa dei primi sintomi evidenti. Non va meglio per quel che concerne la qualità di vita: solo il 29 per cento sostiene di aver una buona qualità di vita e otto su dieci affermano di provare un senso di smarrimento e la necessità di parlare con qualcuno del proprio disagio.
Sono alcuni dati contenuti in un sondaggio condotto su oltre 100 pazienti e promosso dall’ANMAR Onlus (Associazione Nazionale Malati Reumatici) in collaborazione con i medici specialisti dell’Osservatorio CAPIRE.
I risultati dell’indagine sono presentati oggi in un webinar reso possibile con contributo incondizionato di Novartis.
«Sono ancora molte le difficoltà riscontrate dai malati nel nostro Paese», ha affermato la presidente ANMAR Onlus Silvia Tonolo. «Ben l’83% degli intervistati afferma di avere dovuto effettuare quattro o più visite mediche prima di avere una diagnosi corretta. I tempi d’attesa risultano ancora troppo lunghi e complicano ulteriormente il quadro clinico di una malattia di per sé già molto invalidante. In particolare risulta evidente la necessità di una maggiore informazione su un grave problema di salute di cui si parla ancora poco. Infatti oltre l’80% dei malati sostiene di aver cercato nel web notizie sulla spondilite anchilosante».
«Sono più di 40mila le persone interessate dalla patologia in Italia», prosegue il prof. Mauro Galeazzi, Responsabile scientifico dell’Osservatorio CAPIRE e presidente emerito della Società Italiana di Reumatologia. «A differenza dell’artrite reumatoide, colpisce soprattutto gli uomini dopo i 25 anni e determina un progressivo irrigidimento della colonna vertebrale. Si manifesta attraverso forti dolori e può rendere impossibile flettere la colonna vertebrale. Contro la spondilite anchilosante esistono trattamenti molto efficaci seppur non risolutivi. Viene però diagnosticata con ritardi inaccettabili che fanno perdere l’opportunità di accedere a cure che ottengono il massimo del risultato solo se iniziate molto precocemente. Lo specialista reumatologo viene coinvolto mediamente troppo tardi nel processo diagnostico per carenza o disattenzione nell’attivazione di percorsi diagnostico terapeutici che pure esistono».
Sempre dal sondaggio ANMAR- Osservatorio CAPIRE emerge come la metà dei pazienti non sia soddisfatta della terapia farmacologica che sta assumendo. Al tempo stesso solo uno su tre ritiene efficace la gestione farmacologica del dolore.
«Da questi due dati si evince chiaramente quanto sia forte l’impatto della malattia», conclude Francesco Ciccia, ordinario di Reumatologia dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. «L’avvento dei farmaci biologici, ormai oltre due decenni fa, ha modificato positivamente il decorso delle complesse condizioni cliniche che contraddistinguono la spondilite anchilosante. Se vogliamo però garantire migliori condizioni di vita ai pazienti bisogna favorire gli interventi terapeutici tempestivi. Fondamentale deve essere il ruolo del medico di medicina generale che viene interpellato, alla comparsa dei sintomi iniziali, nel 45% dei casi. Rafforzando la collaborazione tra questi professionisti e noi specialisti reumatologi si possono aumentare le diagnosi precoci, prevenire le disabilità dei malati e, di conseguenza, ridurre i costi sociali diretti e indiretti della malattia».