Alzheimer, speranze da nuovo farmaco. Donanemab rallenta la progressione della malattia
Non è una cura. Ma donanemab, l’anticorpo monoclonale che ha mostrato risultati promettenti in un trial clinico di fase 3, rallentando il declino cognitivo e funzionale delle persone con malattia di Alzheimer in fase precoce ma sintomatica, lascia intravedere la speranza prima o poi di riuscire a fermare il deterioramento neurologico prima che i danni siano irreversibili.
Così almeno suggerisce uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association che ha confrontato gli effetti del farmaco con quelli di un placebo. E se i risultati osservati nel corso della sperimentazione dovessero essere confermati nel mondo reale, si tratterebbe di un significativo progresso nel controllo della patologia neurodegenerativa. Va anticipato però che nella sperimentazione sono emersi effetti collaterali non trascurabili come microemorragie e gonfiori cerebrali che imporrebbero uno scrupoloso monitoraggio dei pazienti, con controlli ravvicinati che non sono facili da assicurare al di fuori di un contesto protetto come quello di uno studio clinico.
Donanemab, prodotto dal gigante farmaceutico Ely Lilly, come altre molecole simili che sono finite al centro della ricerca degli ultimi anni, agisce sull’accumulo della proteina beta amiloide all’origine delle placche ritenute responsabili delle disfunzioni cerebrali nella malattia di Alzheimer. Il farmaco si lega alla proteina beta-amilode specifica delle placche rimuovendole dal cervello. Questa operazione di pulizia sembra migliorare le funzioni cerebrali anche se non è sufficiente per restituire al cervello la piena funzionalità.
Lo studio ha coinvolto 1.736 pazienti dall’età media di 73 anni con deterioramento cognitivo lieve o demenza lieve con segni di accumulo delle due proteine coinvolte nell’Alzheimer, amiloide e tau, osservati attraverso la tomografia a emissione di positroni. I partecipanti sono stati divisi causalmente in due gruppi: un gruppo è stato trattato con placebo, l’altro con donanemab somministrato per via endovenosa ogni 4 settimane al dosaggio di 700 mg per le prime tre volte e di 1.400 mg per il periodo successivo di 68 settimane.
I ricercatori hanno classificato i pazienti in due categorie
in base al livello di proteina tau riscontrato, che è considerato un biomarcatore della progressione dell’Alzheimer: un primo gruppo composto da pazienti con livello medio-basso di tau e un secondo gruppo misto con livelli di tau basso-medio e alti.
L’endpoint primario dello studio, ossia il traguardo principale che gli sperimentatori si erano prefissati di raggiungere con il trial, consisteva nel miglioramento delle attività cognitive quotidiane dei partecipanti rispetto al momento dell’arruolamento misurato con scale di valutazione internazionali ad hoc.
Nel gruppo con livelli bassi-medi di tau trattato con donanemab è stato osservato un rallentamento della progressione della malattia del 35 per cento rispetto al gruppo trattato con placebo.
Nel gruppo misto con livelli di tau bassi-medi e alti, il rallentamento della malattia è stato pari al 22 per cento. Significa che il farmaco permette di rallentare il deterioramento che però prosegue inesorabile. In sostanza, i pazienti in terapia peggiorano più lentamente degli altri allungando così la fase della vita in cui rimangono indipendenti. Un risultato che è comunque degno di nota dopo decenni di studi fallimentari nella lotta all’Alzheimer. Con donanemab è stato infatti possibile intervenire nel decorso della malattia, un traguardo indubbiamente positivo.
I risultati dimostrano che si ottengono maggiori benefici dalla terapia nelle fasi precoci della malattia, quando i livelli di tau sono più bassi. Sembrerebbe quindi importante rimuovere le placche amiloidi prima che la proteina tau si diffonda.
I ricercatori hanno anche osservato la effettiva riduzione delle placche di beta amiloide nel gruppo trattato con il farmaco: nel braccio con livelli medio-bassi di tau (pazienti in fase precoce) le placche si sono ridotte dell’80 per cento, mentre nel gruppo misto del 76 per cento. Il farmaco funziona meglio nei pazienti più giovani, mentre non è stata osservata alcuna differenza nella risposta alla terapia tra maschi e femmine.