Cancro al seno: tamoxifene per tre anni riduce rischio di recidive e nuovo tumore

La sperimentazione

Cancro al seno: tamoxifene per tre anni riduce rischio di recidive e nuovo tumore

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Immagine: Drnavneettripathi, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
di redazione
Rischio di nuovo tumore ridotto del 42%; più basse del 64% le probabilità di un cancro nella mammella controlaterale

Una piccola dose di tamoxifene al giorno per soli tre anni riduce il rischio di recidive e di nuovi tumori al seno, con minimi effetti collaterali, mantenendo gli effetti anche sette anni dopo la fine del trattamento. È il dato che emerge da uno studio coordinato dall’Ente Ospedaliero Ospedali Galliera di Genova e pubblicato sul Journal of Clinical Oncology.

Lo studio ( TAM-01) è stato effettuato in 14 centri oncologici italiani, nelle aree di Genova, Milano, Napoli, Modena, Torino, Tortona, Forlì, Meldola, Carpi, Varese, Vicenza, Bari, Ravenna, Pavia, Catanzaro, con il coordinamento di Andrea De Censi, direttore del Dipartimento di Medicina e dell'Unità Complessa di Oncologia Medica dell’Ente Ospedaliero Ospedali Galliera di Genova. 

La ricerca ha coinvolto 500 donne con cancro della mammella non invasivo (carcinoma duttale in situ o DCIS) o con lesioni precancerose (carcinoma lobulare in situ, iperplasia duttale atipica) sottoposte a intervento chirurgico ed eventuale radioterapia in caso di DCIS. Le pazienti sono state assegnate dal computer con metodo casuale a uno dei due gruppi di trattamento, nei quali hanno rispettivamente ricevuto 5 mg al giorno di tamoxifene o placebo per tre anni. Quindi sono state seguite per un periodo di follow-up di circa dieci anni. 

I dati a cinque anni avevano già dimostrato una riduzione del 52% delle recidive di cancro alla mammella invasivo o DCIS rispetto al placebo e una riduzione ancora maggiore, del 76%, del rischio di tumore all’altra mammella. Inoltre le donne che hanno ricevuto il tamoxifene hanno riferito di avere avuto solo una vampata di calore aggiuntiva al giorno rispetto al gruppo che ha ricevuto il placebo. 

«Dopo che questi primi dati sono stati annunciati nel 2018, numerose linee guida statunitensi, tra cui quelle di società scientifiche come ASCO, NCCN e USPSTF, raccomandano il tamoxifene a basse dosi dopo una diagnosi di DCIS o nelle donne con lesioni precancerose», dice De Censi. «Il trattamento a basse dosi di tamoxifene è anche detto “babytam” negli Stati Uniti. 

«In questo studio più recente abbiamo aggiornato i risultati sulle recidive di tumore alla mammella dopo dieci anni per valutare eventuali effetti collaterali a lungo termine e vedere se l'efficacia del trattamento venisse mantenuta nel tempo, anche a distanza di sette anni dal termine della cura», commenta Matteo Lazzeroni, medico ricercatore della Divisione di Prevenzione e Genetica Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO) e primo autore dell’articolo. «I dati a dieci anni mostrano che il tamoxifene a basse dosi continua a mantenere i propri effetti protettivi, riducendo del 42% il rischio di nuovi tumori mammari e con le curve di sopravvivenza, del gruppo trattato rispetto a quello con placebo, che rimangono notevolmente separate a dieci anni». Inoltre il rischio di sviluppare un tumore nell’altra mammella è risultato ridotto de 64%. 

Per quanto riguarda gli eventi avversi valutati, tra cui tumore all’utero, altri tumori, malattia coronarica, frattura ossea, cataratta e trombosi venosa profonda o embolia polmonare, non sono state osservate differenze significative tra i due gruppi dello studio. 

«La piena conferma dell’efficacia e sicurezza del tamoxifene a basse dosi ci permette di considerarlo ormai a tutti gli effetti “practice changing”, o in grado di cambiare la pratica clinica», aggiunge Bernardo Bonanni, direttore della Divisione di Prevenzione e Genetica dello IEO. «I risultati ottenuti aprono la strada a nuovi studi clinici di prevenzione, alcuni pronti a partire a breve, nei soggetti sani ad alto rischio tumorale, incluse le donne portatrici di mutazione genetiche ereditarie».

Lo studio è stata sostenuto da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, ministero della Salute, LILT e ospedali Galliera di Genova.