Sclerosi multipla: vaccinazione anti-Covid efficace, ma alcuni farmaci possono ridurre la risposta
Dopo un mese dalla seconda dose la maggior parte dei pazienti vaccinati ha elevati livelli di anticorpi contro il coronavirus
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Anche i pazienti affetti da sclerosi multipla sviluppano una risposta protettiva contro Covid-19 con la vaccinazione, tuttavia, per una fetta di malati che assumono specifici farmaci la risposta è più debole.
È questo il risultato di uno studio italiano appena pubblicato sulla rivista EBioMedicine. La ricerca, cofinanziato dall’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM) con la sua Fondazione (FISM), ha coinvolto 35 centri nazionali per la sclerosi multipla, coordinati dall’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e dall’Università degli Studi di Genova.
Rispondere all’incertezza
La ricerca risponde a dubbi importanti che negli ultimi mesi hanno afflitto la comunità scientifica e i pazienti sulla reale efficacia e sicurezza dei vaccini in una categoria di malati con peculiari caratteristiche del sistema immunitario.
«La National Multiple Sclerosis Society e altre organizzazioni - scrivono gli autori dello studio - hanno raccomandato che tutti i pazienti con sclerosi multipla debbano essere vaccinati contro SARS-CoV-2. L’impatto di tale vaccinazione, principalmente in termini di risposte sierologiche, effetti avversi ed efficacia clinica, sulla sclerosi multipla trattata con terapie modificanti la malattia è però in gran parte sconosciuto».
I primi dati arrivati nei mesi scorsi da Israele erano incoraggianti sull’efficacia generale della vaccinazione in questa popolazione, ma non è stato ancora chiarito quale potesse essere l’impatto dei singoli farmaci sulla risposta alla vaccinazione.
Da questa incertezza è nato lo studio che è stato avviato all’inizio della campagna vaccinale in Italia.
Vaccini efficaci
La ricerca pubblicata oggi si riferisce a 780 pazienti, anche se lo studio completo conta di arruolarne 2 mila. Tutti hanno ricevuto un esame del sangue per verificare la presenza di anticorpi anti-Covid sviluppati in risposta a un’infezione passata e un altro effettuato un mese dopo la seconda dose di vaccino (Moderna o Pfizer), quando si presume che i livelli di anticorpi sviluppati dopo la vaccinazione siano ai massimi livelli.
Il primo risultato dello studio è che dopo un mese dalla seconda dose, la maggior parte dei pazienti vaccinati ha elevati livelli di anticorpi contro il coronavirus.
Non tutti i pazienti hanno però la stessa risposta: quelli in trattamento con i farmaci ocrelizumab, fingolimod, rituximab mostravano una produzione di anticorpi più debole. Che in alcuni casi era così bassa da non essere rilevabile.
Il «56,5% di pazienti vaccinati con ocrelizumab, il 36,0% di pazienti con rituximab e il 7,1% di pazienti con fingolimod non ha prodotto livelli di anticorpi anti RBD rilevabili a 4 settimane dalla seconda dose di vaccino scrivono gli autori dello studio», si legge nella ricerca.
Inoltre, differenze importanti sono state riscontrate anche nell’efficacia dei vaccini, con quello Moderna a una prima analisi in grado di fornire risposte più forti.
Necessario approfondire
I ricercatori, per ora, sono prudenti. «Complessivamente, i risultati riportati nello studio devono essere interpretati con cautela quando si cerca di trarne implicazioni cliniche», avvertono.
Per esempio, «non sappiamo ancora se la riduzione di anticorpi contro il Covid si traduca in una minore efficacia del vaccino», precisa il coordinatore dello studio Antonio Uccelli, neuroimmunologo e direttore scientifico del San Martino. «A questo proposito è fondamentale monitorare clinicamente i pazienti e studiare la risposta al vaccino mediata da altri tipi di cellule immunitarie, per esempio i linfociti T, che potrebbe garantire comunque una protezione sufficiente».
Inoltre lo studio non è finito: «prosegue con il completamento della raccolta dei campioni sui 2.000 pazienti arruolati e la valutazione del follow up clinico», aggiunge la prima firmataria della ricerca Maria Pia Sormani, del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova. «Il nostro obiettivo infatti è prima di tutto verificare che le persone con sclerosi multipla non sviluppino il Covid in forma severa, in particolare quelli che hanno prodotto bassi livelli anticorpali».