Tumore dell’ovaio con mutazione Brca: la terapia mirata migliora la sopravvivenza. Due pazienti su tre sono vive a più di cinque anni

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Tumore dell’ovaio con mutazione Brca: la terapia mirata migliora la sopravvivenza. Due pazienti su tre sono vive a più di cinque anni

di redazione

Ogni anno, in Italia, sono 5.200 le nuove diagnosi di tumore dell'ovaio. La sopravvivenza a cinque anni è ancora bassa, intorno al 43%, anche perché nell'80% delle donne la malattia viene scoperta quando è già in fase avanzata. Inoltre, in questa patologia mancano efficaci strumenti di screening.

Oggi, però, in presenza di specifiche mutazioni genetiche, questa neoplasia può essere trattata con una terapia mirata.

Durante il congresso della Società europea di oncologia medica, a Parigi del 9 al 12 settembre, sono stati infatti presentati i risultati positivi del follow-up a lungo termine degli studi di Fase III PAOLA-1 e SOLO-1 che hanno mostrato significativi miglioramenti clinici nella sopravvivenza globale e nella sopravvivenza libera da progressione con olaparib in combinazione con bevacizumab, un farmaco antiangiogenico, per le pazienti positive al deficit di ricombinazione omologa (HRD), rispetto a bevacizumab, e con olaparib in monoterapia, per le pazienti con mutazioni BRCA, rispetto a placebo. I risultati dello studio SOLO-1 sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology.

«Circa Il 70% delle donne con malattia avanzata va incontro a recidiva entro due anni» ricorda Nicoletta Colombo, direttore del Programma di Ginecologia oncologica dell’Istituto europeo di oncologia di Milano e docente all’Università Milano-Bicocca. I risultati dello studio PAOLA-1, prosegue, «dimostrano che il 65,5% delle pazienti HRD positive, trattate con olaparib in combinazione con bevacizumab, è vivo a cinque anni rispetto al 48,4% con bevacizumab da solo. La combinazione ha ridotto il rischio di morte del 38%, confermando ulteriormente il beneficio clinicamente significativo di sopravvivenza a lungo termine. Inoltre, l’aggiunta di olaparib ha portato la sopravvivenza libera da progressione a una mediana di quasi quattro anni, cioè a 46,8 mesi rispetto a 17,6 con bevacizumab da solo».

I risultati a lungo termine dello studio SOLO-1, nel carcinoma ovarico avanzato con mutazione BRCA «confermano che il beneficio di olaparib in monoterapia nel setting di mantenimento di prima linea si estende ben oltre il limite massimo di trattamento di due anni – aggiunge Domenica Lorusso, docente di Ostetricia e ginecologia e responsabile della Programmazione ricerca clinica del Gemelli di Roma - continuando a produrre un miglioramento clinicamente significativo della sopravvivenza globale per più di sette anni. Olaparib – precisa Lorusso - ha ridotto il rischio di morte del 45% e, a sette anni, il 67% delle donne era vivo rispetto al 47% con placebo. Inoltre, il tempo medio alla prima terapia successiva era di 64 mesi con olaparib rispetto a 15,1 mesi con placebo. Questi dati – conclude l'esperta - ci permettono di affermare che oggi, per alcune pazienti con tumore ovarico avanzato, la guarigione è possibile».

«Storicamente il tasso di sopravvivenza a cinque anni delle pazienti con nuova diagnosi di carcinoma ovarico avanzato è del 10-40%» osserva Saverio Cinieri, presidente dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), perciò «ottenere la sopravvivenza a lungo termine in queste donne è cruciale, perché il setting di prima linea offre il maggior potenziale per influire sulla sopravvivenza». Per il presidente Aiom, «sono molto importanti i dati aggiornati degli studi PAOLA-1 e SOLO-1, con due pazienti su tre vive. Il difetto di ricombinazione omologa (HRD) rappresenta un “errore” nel meccanismo del riparo della doppia elica del Dna, presente in circa il 50% dei casi. I risultati dei due studi – sostiene infine Cinieri - sottolineano ulteriormente l’importanza, al momento della diagnosi, del test HRD, che consente di individuare anche le mutazioni BRCA, per tutte le pazienti con carcinoma ovarico avanzato».