Meglio correre piano verso le scarpe minimaliste
A fronte di un milione e mezzo di paia vendute negli USA solo nel 2011, pare che siano la nuova tendenza dei runners, gli appassionati di corsa a piedi. Sono le “minimalist shoes”, scarpe minimaliste che offrono solo una ridottissima protezione al piede per dare a chi corre la sensazione di farlo a piedi nudi, inseguendo il mito dei grandi podisti africani alla Abebe Bikila. Per i loro sostenitori, queste scarpe migliorerebbero le performance sportive e metterebbero al riparo da molti infortuni, ma, secondo uno studio del Medicine & Science in Sports & Exercise, il passaggio dalle tradizionali calzature a quelle più essenziali non sarebbe privo di inconvenienti, specialmente se la transizione avviene in tempi brevi.
LO STUDIO – Alla Brigham Young University nello Utha hanno arruolato 36 esperti runners. Per dieci settimane metà degli atleti ha continuato a correre con le scarpe tradizionali, mentre l’altra metà ha iniziato a usare un tipo di calzature minimaliste in modo graduale come indicato dai produttori delle scarpe: un miglio la prima settimana, due la seconda, tre la terza per poi aumentare le distanze a piacere nei giorni successivi. I ricercatori hanno confrontato la risonanza magnetica di piedi e gambe di tutti gli atleti effettuata al termine dello studio con quella eseguita prima dell’indagine che non aveva rilevato alcun disturbo agli arti. «Nella maggior parte di chi aveva sperimentato le scarpe minimaliste la risonanza magnetica ha riscontrato la presenza di un edema del midollo osseo a livello del piede di entità tale da far sospettare il rischio di un’imminente lesione», afferma Sarah Ridge, ricercatrice alla Brigham e autrice dello studio. Si tratterebbe di un accumulo di liquido a livello dell’osso che, se presente in quantità minima, rappresenta una risposta all’allenamento e al rafforzamento dell’arto, ma quando raggiunge certi valori rivela uno stress eccessivo dell’osso che potrebbe andare incontro a una vera e propria lesione. Nessun edema preoccupante è stato invece riscontrato in chi aveva corso con scarpe tradizionali.
PASSAGGIO GRADUALE – Non basterebbero dunque dieci settimane per trasformarsi in “barefoot runners”, podisti a piedi scalzi, in tutta sicurezza. Lo studio di Ridge e colleghi va ad alimentare la diatriba sull’uso di queste nuove calzature. Le scarpe minimaliste hanno una forma che tende a rispettare l’anatomia del piede, dotate di suola piatta e flessibile, prive di plantare e con tomaia morbida permettono di riprodurre la corsa a piedi nudi che scarica il peso del corpo tutto sull’avampiede, contrariamente a quanto accade con le scarpe tradizionali, ammortizzate posteriormente, dove l’appoggio avviene sul tallone. Per i fan del “barefoot running” questo significherebbe miglior adattamento al terreno, minor dispendio energetico e un maggior rafforzamento dei piedi a vantaggio della performance sportiva e di un più basso rischio di incidenti. Per i detrattori invece, spostare il carico del corpo durante la corsa sull’avampiede sarebbe deleterio per le articolazioni e privo di vantaggi specialmente sulle lunghe distanze. Poche però sono le prove scientifiche a supporto dell’una e dell’altra tesi. «Non crediamo che le scarpe minimaliste in sé siano dannose - puntualizza Ridge - ma il passaggio a queste calzature, per essere sicuro, deve essere lento e graduale, il piede deve avere il tempo di adattarsi al nuovo tipo di corsa». La modalità della transizione dipenderebbe anche dalle caratteristiche del runner. Un nuovo studio in corso che considera peso, struttura, tipo di andatura ed eventuale predisposizione alle lesioni dei singoli podisti fornirà presto qualche elemento di valutazione in più.