I colpi alla testa nello sport vanno evitati, ma più per i danni a breve termine che per quelli a lungo termine
L’obiettivo resta lo stesso: prevenire i casi di trauma cranico nello sport. I colpi alla testa fanno male al cervello degli atleti ma non per la ragione che pensate voi. È questa in sostanza la posizione dei 31 esperti del Concussion in Sport Group (CISG) autori di documento di consenso pubblicato sul British Journal of Sports Medicine. Bisogna fare di tutto per ridurre il rischio che gli atleti ricevano colpi alla testa, ma più per gli effetti immediati dell’incidente che per quelli a lungo termine.
Perché, secondo i ricercatori, mancano prove consistenti di un nesso causale tra gli episodi di commozione cerebrale di origine traumatica e le malattie neurodegenerative come demenza, Parkinson, Alzheimer o l’encefalopatia traumatica cronica. Ora come ora, dal loro punto di vista, si può solo affermare che ripetuti traumi alla testa sono potenzialmente associati a danni neurologici nel lungo termine ma non è possibile sostenere un rapporto di causa ed effetto.
«Abbiamo bisogno di studi del tipo caso-controllo e di coorte progettati molto meglio che includano, soprattutto, una attenta valutazione delle variabili confondenti», ha affermato Robert Cantu, neurochirurgo presso la Boston University School of Medicine e coautore del consensus statement.
Va specificato che nessuno ha dato il via libera libera a collisioni corpo a corpo, allo scontro in campo senza regole. Anzi. Gli scienziati chiedono infatti nuove regole di prevenzione degli infortuni per l’hockey sul ghiaccio, come mettere al bando la mossa del “bodychecking” che consiste nel bloccare l’avversario con una potente spallata o rendere obbligatorio l’uso del paradenti nei bambini e negli adolescenti. Secondo i dati in possesso dei ricercatori, la messa al bando del bodychecking ridurrebbe i casi di commozione cerebrale del 58 per cento.
Nel documento, viene anche chiesto di ricorrere maggiormente agli esercizi di allenamento neuromuscolare nel riscaldamento che hanno ridotto il rischio di scontri nel rugby e di limitare la pratica del contatto nel calcio statunitense a tutti i livelli.
La salute del cervello degli atleti, insomma, continua a stare a cuore ai 31 membri del panel che hanno aggiornato le linee guida sulla prevenzione e gestione delle commozioni cerebrali in ambito sportivo.
Tra le novità introdotte c’è anche una correzione del protocollo per il trattamento degli incidenti. Secondo gli esperti la prescrizione standard che prevede un riposo rigoroso e il divieto di passare il tempo davanti allo schermo nei giorni successivi alla commozione cerebrale correlata allo sport potrebbe non essere vantaggiosa. È preferibile, a loro avviso, iniziare subito a muoversi, camminando o pedalando sulla cyclette, e non interrompere del tutto l’uso dei dispositivi di digitali che andrebbe limitato, ma non vietato, solo nei primi due giorni dopo l’incidente.
Troppe premure e un eccessivo riposo potrebbero essere controproducenti.
«Gli studi che abbiamo esaminato hanno alcune limitazioni metodologiche piuttosto significative... perché non potevano valutare l’impatto di alcuni fattori considerati importanti nell’analisi della salute del cervello in età avanzata, come la genetica, il livello di istruzione, la condizione socioeconomica, l’ipertensione e le malattie cardiovascolari», ha affermato lGrant Iverson, neuropsicologo presso il Massachusetts General Hospital e la Harvard Medical School, autore principale del documento.
Le critiche non sono tardate ad arrivare. Come riportato su Science on line alcuni epidemiologi hanno contestato le conclusioni del panel sostenendo che l’analisi non ha incluso un'ampia letteratura di casi di studio come quelli sul cervello di ex atleti professionisti raccolti in una banca della Boston University. Sempre su Science si accenna anche al sospetto di una mancata trasparenza nella composizione del panel e alla possibilità che qualche membro sia legato ad associazioni sportive che hanno interesse a minimizzare i danni degli incidenti degli atleti.
C’è infine chi fa notare che la formazione degli esperti è molto eterogenea e che al momento delle votazioni per decidere le posizioni finali tutti i membri hanno pesato allo stesso modo senza tenere conto delle differenti competenze.