Nuova condanna per gli alimenti ultra-processati: aumentano il rischio di cancro del colon e di morte prematura
Due studi, uno americano e uno italiano, mostrano un’associazione tra il consumo di cibo ultra-processato e il cancro del colon-retto. I risultati invitano a rinnovare le linee guida sull’alimentazione, tenendo conto non solo dei nutrienti ma anche del grado di lavorazione degli alimenti
«
»
pexels-isak-fransson-2115653.jpg

Merendine, bibite gasate, insaccati, cibi pronti da cuocere o riscaldare. Insomma, tutti quei prodotti alimentari che rientrano nella categoria dei cibi ultra-processati finiscono ancora una volta nel libro nero dei nutrizionisti.
Le accuse si fanno sempre più pesanti. Due nuovi ampi studi pubblicati sul British Medical Journal hanno dimostrato un’associazione tra il consumo di alimenti trasformati (con aggiunta di sale, conservanti, aromi ecc…) e un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, tumore del colon-retto e morte.
L’aspetto più nuovo e interessante delle due indagini riguarda l’associazione con il tumore del colon-retto. Gli studi precedenti si erano concentrati più che altro sul rischio di obesità, ipertensione, ipercolesterolemia, ma i dati sul legame con il carcinoma colorettale scarseggiavano o erano poco affidabili.
Nel primo studio, i ricercatori hanno esaminato nel dettaglio l'associazione tra il consumo di alimenti ultra-processati e il rischio di cancro del colon-retto in un campione di 46.341 uomini e 159.907 donne provenienti da tre ampi studi statunitensi nei quali la dieta quotidiana era stata valutata ogni quattro anni utilizzando questionari specifici sulla frequenza con cui venivano consumati determinati alimenti.
I ricercatori hanno raccolto i dati sulle abitudini alimentari classificando gli alimenti in base al grado di lavorazione e sui tassi di cancro del colon-retto in un periodo di 24-28 anni.
I risultati mostrano che le persone del gruppo con il maggior consumo di cibo ultra-processato avevano un rischio maggiore del 29 per cento di sviluppare il cancro del colon-retto rispetto a quelle del gruppo con il consumo più basso. L’associazione però è stata osservata solo per gli uomini e non per le donne.
Il secondo studio è italiano si basa sui dati di 22.895 adulti italiani (età media 55 anni, 48% uomini) che fanno parte dello Studio Moli-sani, una ricerca sui fattori di rischio genetici e ambientali per malattie cardiache e cancro.
I ricercatori hanno utilizzato due sistemi di classificazione degli alimenti in relazione alla mortalità: il Food Standards Agency Nutrient Profiling System (FSAm-NPS), utilizzato per la compilazione dell'etichetta della confezione con codice Nutri-Score (usato in Francia per dare indicazione sui valori nutrizionali), e la scala NOVA che valuta il grado di trasformazione degli alimenti.
I dati sulla mortalità sono stati raccolti nell’arco di 14 anni. I risultati hanno mostrato che i partecipanti nel gruppo più alto dell'indice FSAm-NPS (con un’alimentazione meno sana) avevano un rischio di morte prematura per qualsiasi causa maggiore del 19 per cento e un rischio di morte per malattie cardiovascolari superiore del 32 per cento rispetto al gruppo più basso (con una dieta più sana).
I risultati erano simili quando il confronto veniva effettuato ricorrendo alla scala NOVA (19% e 27% di aumento del rischio di mortalità per tutte le cause e cardiovascolare, rispettivamente).
«I nostri risultati confermano che il consumo sia di alimenti di scarsa qualità nutrizionale che quello di cibi ultra-processati aumenta in modo rilevante il rischio di mortalità, in particolare per le malattie cardiovascolari. Quando però abbiamo tenuto conto congiuntamente sia del contenuto nutrizionale della dieta che del suo grado di lavorazione industriale, è emerso che quest’ultimo aspetto è quello più importante nell’evidenziare il maggiore rischio di mortalità. In realtà, oltre l’80 percento degli alimenti classificati come non salutari dal Nutri-Score sono anche ultra-lavorati. Questo suggerisce che il rischio aumentato di mortalità non è da imputare direttamente (o esclusivamente) alla bassa qualità nutrizionale di alcuni prodotti, bensì al fatto che questi siano anche ultra-lavorati», dice Marialaura Bonaccio, epidemiologa del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli e primo autore dello studio..
Lo studio invita a usare un sistema di etichettatura per i prodotti commerciali più dettagliato rispetto a quello attuale che tenga conto anche del gradi di lavorazione del prodotto. La classificazione NOVA, in per esempio, invece di valutare un alimento sulla base delle caratteristiche nutrizionali guarda piuttosto a quanto quel prodotto sia stato lavorato a livello industriale. Il sistema NOVA identifica, nello specifico, gli alimenti cosiddetti ultra-processati, ossia quei cibi fatti in parte o interamente con sostanze che non vengono utilizzate abitualmente in cucina (proteine idrolizzate, maltodestrine, grassi idrogenati…) e che contengono generalmente diversi additivi, come coloranti, conservanti, antiossidanti, anti-agglomeranti, esaltatori di sapidità ed edulcoranti. Fanno parte di questa categoria bevande zuccherate e gassate, prodotti da forno preconfezionati, creme spalmabili, ma anche prodotti apparentemente insospettabili, come fette biscottate, alcuni cereali per la colazione, cracker e yogurt alla frutta.
In base al sistema NOVA, proposto una decina di anni fa da un team di ricercatori brasiliani, una fettina di carne sarebbe preferibile a un hamburger vegano, semplicemente perché la prima non ha subito manipolazioni industriali e verosimilmente non contiene additivi alimentari, mentre il secondo è il risultato di un’articolata lavorazione industriale al termine della quale la percentuale di alimento rimasto integro diventa marginale.
«L’obiettivo di aiutare le persone a compiere scelte alimentari più salutari è sicuramente da condividere», commenta Licia Iacoviello, direttore del Dipartimento e professore ordinario di Igiene all’Università dell’Insubria di Varese e Como. «Tuttavia, il Nutri-Score, così come anche altri sistemi di etichettatura, elaborati in Italia e in altri Paesi, rischia di veicolare solo parzialmente il messaggio volto a migliorare le scelte a tavola. Se le lettere e i colori del Nutri-Score ci aiutano a confrontare rapidamente prodotti della stessa categoria, permettendoci di scegliere quello migliore dal punto di vista nutrizionale, questo sistema non fornisce tuttavia nessuna indicazione sul grado di trasformazione dell’alimento. I nostri dati indicano che c’è bisogno di considerare non solo le caratteristiche nutrizionali, ma anche il grado di lavorazione dei cibi. Ecco perché pensiamo, anche in sintonia con altri ricercatori internazionali, che bisognerebbe integrare ogni sistema di etichettatura nutrizionale con informazioni riguardanti il livello di trasformazione».
«Per una strategia di prevenzione che sia realmente efficace, dobbiamo concentrarci soprattutto su quegli alimenti che il Nutri-Score classifica come validi da un punto di vista nutrizionale ma che sono anche molto lavorati», spiega Giuseppe Grosso, professore associato dell’Università di Catania. «È il caso ad esempio di alcune bevande che pur avendo un ridotto contenuto di zuccheri, risultando quindi adeguate sul piano nutrizionale tanto da conquistarsi una lettera B del Nutri-Score, di fatto sono molto lavorate. Ma anche yogurt e dolci freddi, che vantano pochi grassi ma contengono una lista corposa di additivi alimentari».
«Un difetto comune a tutti i sistemi di etichettatura nutrizionale è quello di isolare il singolo prodotto dall’alimentazione globale» precisa Giovanni de Gaetano, presidente dell’IRCCS Neuromed di Pozzill. «Per migliorare davvero l’alimentazione, dovremmo ritornare all’antica lezione della Dieta Mediterranea, che è uno stile di vita caratterizzato da una sapiente scelta degli alimenti e del modo di combinarli e consumarli. Non è una lista della spesa, ma riflette una storia centenaria che rischia di sparire se consideriamo gli alimenti come atomi che non comunicano tra loro. Dobbiamo inoltre ricordare che l’alimentazione dei popoli mediterranei è basata principalmente su prodotti freschi o minimamente lavorati. Pertanto, un’azione completa di prevenzione a tavola dovrebbe prestare attenzione anche alla lavorazione industriale che, se eccessiva, rappresenta una documentata insidia per la nostra salute».