L’innovazione negata. 130 mila malati senza farmaci biologici

Fin dal loro avvento, i farmaci biotecnologici hanno rivoluzionato la gestione di numerose malattie

Cancro, artrite reumatoide, psoriasi: l’elenco delle patologie e dei pazienti che ne hanno beneficiato è lungo

Tuttavia, secondo una ricerca CliCon, circa 130mila italiani per cui questi trattamenti sono indicati non ricevono i farmaci biotech

È un problema economico? I tetti sulla spesa farmaceutica e le limitate risorse a disposizione del servizio sanitario di certo non aiutano

Ma l’avvento dei farmaci biosimilari ha abbattuto drasticamente i costi dei trattamenti con farmaci biotech

Da cosa nasce allora il problema del sotto-trattamento, che mina alla radice il diritto alla salute?

L’innovazione negata. 130 mila malati senza farmaci biologici

Potrebbero migliorare la gestione della malattia e prevenirne l’aggravamento. Soprattutto, restituire una buona qualità di vita. Ma c’è un esercito di italiani che non riceve i farmaci biotech, anche se sarebbero la migliore scelta per la loro condizione

3 giugno 2022

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«Io ho iniziato a fare il reumatologo oltre 35 anni fa. E ricordo cosa era la reumatologia dell’epoca. I nostri ambulatori erano pieni di carrozzelle, bastoni. Oggi tutto questo non c’è più. Soprattutto grazie ai nuovi farmaci che hanno totalmente rivoluzionato la prognosi dei pazienti».

Roberto Gerli dirige la Reumatologia dell’Azienda universitario-ospedaliera di Perugia ed è il presidente della Società italiana di reumatologia. In poche parole traccia il quadro di cosa abbia significato, per molte patologie, l’avvento dei farmaci biologici: controllo della malattia, prevenzione dell’aggravamento, recupero della qualità di vita.

Nonostante ciò, in Italia esiste un gran numero di pazienti che potrebbe trarre importanti benefici dai farmaci biologici e non ne ha la disponibilità: circa 130 mila persone nelle sole aree della reumatologia, gastroenterologia e dermatologia, come mostra uno studio realizzato da CliCon - Health, Economics & Outcome Research, società di ricerca guidata dall’economista Luca Degli Esposti e presentata martedì 24 maggio a Roma nel convegno “Accesso ai farmaci biologici: dal sottotrattamento al gain sharing”, organizzato dall’Italian Biosimilars Group di Egualia, l’associazione delle aziende produttrici di farmaci equivalenti (quelli che ancora sono conosciuti come”generici”), biosimilari e value added medicines.

I numeri del sotto-trattamento

Lo studio è il compimento di un lavoro che nasce molti anni fa, almeno cinque, racconta Stefano Collatina, coordinatore dell’Italian Biosimilars Group, che ha commissionato la ricerca.

«Il progetto nasce da uno studio preliminare che ci ha consentito di generare l’ipotesi del sotto-trattamento. Quello studio fu presentato tre anni fa e aveva fatto una cosa semplice: aveva stimato, sulla base della letteratura disponibile, la prevalenza di varie condizioni trattabili con i farmaci biologici ed era andato a vedere, sulla base dei dati di consumo dei farmaci, quanti di questi pazienti venivano effettivamente trattati». Dalla ricerca è emerso un forte disallineamento tra i due dati, sintomo che il numero dei pazienti trattati con biologici era inferiore rispetto a quello che le linee guida suggerivano.

«Non fu sufficiente per convincere le persone», continua Collatina che ricorda come nell’uditorio vi fosse molto scetticismo. «Non ci credeva nessuno. Da lì è nato uno studio molto più ampio». Che oggi, come dice qualcuno, ha scoperchiato il vaso di Pandora mettendo a nudo l’enorme numero di pazienti che non accede ai trattamenti da cui potrebbe trarre beneficio.

«L’analisi è stata condotta su un campione rappresentativo e geograficamente distribuito di Asl con un numero di assistibili corrispondenti a circa l’11 per cento della popolazione nazionale», racconta Luca Degli Esposti. «In particolare, per la reumatologia, prendendo in considerazione il 2017 è stato stimato su scala nazionale un numero di pazienti affetti da artrite reumatoide pari a 320 mila unità, di cui 43 mila trattati con farmaci biologici. Tuttavia - continua Degli Esposti - almeno il 10% dei restanti 275 mila, circa 27 mila pazienti, presentano almeno uno dei criteri di eleggibilità previsti dalle linee guida scientifiche allo stesso trattamento».

Lo stesso calcolo è stato realizzato nell’area della gastroenterologia e in quella della dermatologia. «Per la gastroenterologia - prosegue Degli Esposti - su un totale di circa 237 mila diagnosi di morbo di Crohn o colite ulcerosa, sono circa 20 mila i pazienti trattati con farmaci biologici, il 12% del totale, contro una quota di circa il 28% di pazienti affetti dalle patologie considerate ritenuto idoneo per un trattamento con farmaci biologici, per un totale di circa 68 mila pazienti. In campo dermatologico, infine, su un totale di oltre 1,4 milioni di pazienti identificati con diagnosi di psoriasi, circa il 4%, circa 56 mila, è in trattamento con farmaci biologici e ce ne sono quasi altrettanti, 54 mila, potenzialmente eleggibili allo stesso trattamento».

Vita negata

«Fa un po’ specie leggere la ricerca e fa pensare che non a tutti viene prescritto il farmaco biotecnologico. È una cosa che crea disagio: tutti dovrebbero accedere alla miglior cura per la propria salute», afferma Antonella Celano, presidente dell’Associazione nazionale persone con malattie reumatologiche e rare (Apmarr).

Il disappunto di Celano è quello di tutti i pazienti e dei loro rappresentati. 

«Partiamo dalle certezze», dice il direttore generale dell’Associazione nazionale per le malattie infiammatorie croniche dell’intestino (Amici Onlus), Salvo Leone. «Una certezza è che questi farmaci hanno permesso a pazienti con malattie di Crohn e colite ulcerosa, ma anche afferenti ad altre aree terapeutiche, di ritrovare una condizione di vita normale, anche quando la malattia si presenta in forme aggressive. Ha permesso a queste persone di fare delle cose che per una persona non malata sono normali, semplici azioni che riescono a dare dignità alla loro vita».

Negarne l’accesso significa negare il diritto alla salute. Ma da dove nasce il problema?

«Bisogna capire perché i pazienti non vengono trattati adeguatamente: se ciò avviene per ragioni di carattere scientifico o organizzativo è un conto, se non vengono trattati per ragioni economiche è un altro», riflette Leone.

La spesa, un problema ma non tanto

I farmaci biologici, fin dal loro avvento alla fine degli anni Novanta del secolo scorso hanno portato, oltre agli enormi benefici per i pazienti, un altrettanto grande problema per i sistemi sanitari: quello della sostenibilità legata ai loro costi quasi sempre molto elevati.

L’avvento dei biosimilari ha dato una boccata d’aria al sistema.

«I farmaci biosimilari oggi costano fino al 10-20% rispetto al costo precedente. Il che significa che con quel che si spendeva per trattare un solo paziente prima del loro avvento oggi possiamo curarne cinque o sei», dice Collatina. «Quindi non è più un problema di costo del farmaco. È un problema di gestione del farmaco».

Da sinistra: Luca Degli Esposti (in alto) e Antonio Gaudioso; Stefano Collatina, Ugo Trama e Francesco Saverio Mennini; Roberto Gerli.

Da questo punto di vista, lo studio CliCon fornisce un ulteriore dato: «L’analisi economica ha rivelato costi sostanzialmente sovrapponibili tra pazienti che fanno uso di farmaci biologici e pazienti che potrebbero farne uso ma non lo fanno», illustra Degli Esposti. «A variare è però la composizione dei relativi costi: a una maggiore spesa farmaceutica per i pazienti in trattamento con farmaci biologici si contrappone una maggiore spesa per ricoveri e prestazioni specialistiche nei pazienti che, pur eleggibili al biologico, non ne fanno uso».

Questo dato conferma che il trattamento giusto, anche laddove a una prima lettura può sembrare più costoso, nel lungo periodo offre vantaggi sia in termini di salute sia in termini economici.

Tuttavia, avverte Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria e Microeconomica all'Università romana di Tor Vergata e presidente della Società italiana di health tecnology assessment (Sihta), «spesso il biosimilare è stato usato come strumento per ridurre la spesa farmaceutica o i costi, senza che i risparmi ricavati fossero reinvestiti nel sistema».

Così, quella che sarebbe potuta essere l’occasione per liberare risorse che andassero ad ampliare la platea dei beneficiari dei trattamenti biologici e sostenere l’innovazione, il più delle volte è andata sprecata.

A complicare le cose i tetti che vincolano la spesa farmaceutica al 14,85% del Fondo sanitario nazionale, il 7 per cento per la farmaceutica convenzionata e il 7,85 per acquisti diretti.

Immagine: Agenzia Italiana del Farmaco, Andamento della spesa farmaceuttica nazionale e regionale nel periodo 2018-2020

«Il tetto così come è strutturato e modellato nel nostro Paese è uno strumento anacronistico, perché non correlato al fabbisogno reale», continua Mennini. «Negli anni, nonostante siano giunte importanti innovazioni con farmaci sempre efficaci, il tetto di spesa si è addirittura ridotto».

Un sollievo potrebbe venire dall’aumento del Fondo sanitario nazionale che nei prossimi due anni raggiungerà i 128 miliardi di euro dai 114 del periodo pre-pandemia. «Non è la soluzione del problema, abbiamo solo ridotto il gap di finanziamento del Servizio sanitario nazionale», ammette Antonio Gaudioso, capo della segreteria tecnica del ministro della Salute. «Ma abbiamo più risorse a disposizione».

Intanto, si ipotizzano soluzioni da spendere immediatamente per una carenza cronica di risorse: «Un piccolo strumento lo abbiamo», dice ancora Gaudioso: «Negli scorsi mesi, nella Legge di bilancio è stato previsto l’aggiornamento del Prontuario farmaceutico. Una proposta concreta è far sì che ogni soldo che viene recuperato da una ridefinizione del Prontuario rimanga nell’ambito degli investimenti nella farmaceutica. È una cosa tanto banale quanto innovativa».

C’è anche chi propone, come la vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, Letizia Moratti, di «passare una parte degli acquisti diretti nell’ambito della convenzionata che non raggiunge il tetto: potremmo usufruire della possibilità di un trasferimento, a costo complessivo invariato, da acquisti diretti alla convenzionata e investire questo nei farmaci biosimilari».

Biosimilari, di cosa parliamo

Se oggi riusciamo ad affrontare il tema dell’accessibilità e sostenibilità dei farmaci biologici una buona parte del merito è dei biosimilari.

Un’etichetta sotto cui rientra una specifica categoria di farmaci biotecnologici che meritano una digressione.

Ne sono un classico esempio le proteine, dall'insulina agli anticorpi: sostanze prodotte dal nostro organismo a partire da istruzioni contenute nel nostro genoma. Negli anni, soprattutto grazie all'avvento delle biotecnologie, abbiamo imparato che è possibile produrre anche il laboratorio queste molecole biologiche a fini terapeutici. È così arrivata per esempio, ormai da quarant’anni, l’insulina sintetizzata grazie alla tecnica del Dna ricombinante, che ha permesso di produrre nei batteri quello che serviva ai diabetici di tutto il mondo, senza più bisogno di ricorrere alle insuline animali.

Insomma, tra gli strumenti che la medicina ha a disposizione per contrastare le malattie ci sono oggi anche i farmaci cosiddetti biologici, medicinali generati da un organismo vivente, a differenza di quelli “normali” i cui principi attivi sono realizzati e replicati chimicamente.

La possibilità di elaborare farmaci negli organismi ha rivoluzionato la medicina, rendendo possibile contare su “fabbriche” viventi di medicinali, difficili da produrre solo con un processo chimico. 

Simili, ma unici

Al tempo stesso, però, la fabbricazione biologica rende impossibile replicare in maniera esatta questi medicinali particolari. È da qui che nasce il concetto di farmaco biosimilare: un medicinale simile, molto simile, ma non identico, a un farmaco biologico già esistente. La produzione di questi farmaci, in particolare la stessa complessità delle molecole e della loro replicazione che coinvolge processi biologici, non permette infatti di ottenere copie assolutamente identiche tra farmaci. Questa estrema similitudine, e al tempo stesso l’esistenza di piccole differenze con il farmaco biologico preso a riferimento e già approvato, classifica i biosimilari come farmaci a sé nel panorama farmacologico e normativo, nel quale l’Unione europea, attraverso l’Agenzia europea del farmaco (Ema) ha svolto e svolge un ruolo di primissimo piano.

Il primo farmaco biosimilare approvato dall’Ema risale al 2006 – la somatropina, l’ormone della crescita – mentre l’omologa agenzia americana, la Food and Drug Administration, sarebbe arrivata quasi una decade dopo, con l’approvazione di un colony-stimulating factor, in sostanza un fattore di crescita specifico per i neutrofili, un tipo di globuli bianchi del sangue, utile quando questi scarseggiano per aiutare l’organismo a sostenerne la produzione.

Nel corso degli ultimi anni l’Unione europea ha approvato il più alto numero di biosimilari al mondo, ricorda l’Agenzia stessa, che si occupa anche di fare un’intensa attività di informazione in merito, con guide sia per i produttori che li porteranno sul mercato sia per i clinici che li prescriveranno sia per i pazienti che li assumeranno. Oggi sono disponibili biosimilari per le malattie più diverse: dal diabete ai tumori alle malattie reumatiche, dalla psoriasi all’anemia alle malattie infiammatorie croniche intestinali. Ormai sono una settantina quelli approvati in Europa, con vantaggi per tutti, tanto per gli utilizzatori finali quanto per i sistemi sanitari: i farmaci biosimilari, ricorda anche Ema, hanno allargato l’accessibilità ai farmaci biologici per i pazienti eleggibili, perché ne hanno moltiplicato l’offerta abbassando i prezzi.

Non chiamateli “generici”

C’è un altro aspetto centrale nel concetto dei biosimilari: sono farmaci molto simili ad altri biologici già in commercio, ma possono venire approvati se è scaduta la protezione brevettuale sul farmaco di riferimento, ovvero dopo almeno otto anni.

Questo concetto – la possibilità di immettere in commercio un farmaco simile a uno già presente, ma di cui è scaduta la protezione brevettuale – ricorda il principio di regolamentazione dei farmaci equivalenti (comunemente conosciuti come “generici”). Ma è sbagliato considerare i biosimilari come fossero dei generici dei biologici, proprio in virtù dei processi biotecnologici che permettono di realizzarli, ma non solo. Se infatti le metodologie di produzione sono uno dei punti chiave che differenziano i farmaci equivalenti dai biosimilari – i primi tramite sintesi chimica, i secondi per processi biologici, che coinvolgono l’uso di cellule animali così come batteri – non sono queste le uniche.

Un equivalente è solitamente un farmaco che riproduce fedelmente il suo originator, di cui è copia, dunque. Al contrario, un biosimilare è in genere una molecola grande e complessa, per cui serve l’aiuto di un organismo vivente nella sua produzione.

Fonte: European Medicines Agency (EMA), Biosimilars in the EU. Information guide for healthcare professionals

Le differenze dei processi produttivi determinano differenze anche nel percorso di sviluppo delle due tipologie di farmaci, così come negli studi che devono essere condotti in previsione dell’approvazione. Infatti, un equivalente (il “generico”), proprio in virtù del fatto di essere una copia fedele dell’originator, deve produrre meno dati per il processo di autorizzazione all’immissione in commercio e il suo sviluppo può essere considerato, sotto certi aspetti, più semplice rispetto a quello di un biosimilare. Per esempio, per un farmaco equivalente, i requisiti clinici in genere si basano solo sulle prove di bioequivalenza ovvero sulla dimostrazione che il candidato generico si comporta come l’originator, sia per quantità di principio attivo rilasciato sia per tasso di rilascio.

Questo basta anche per dare all’equivalente le stesse indicazioni nell’approvazione di quelle del farmaco di riferimento. La procedura è invece più complicata per i biosimilari (e in generale per i biologici) in virtù del processo produttivo basato sulle biotecnologie, che può produrre sostanze simili ma non identiche rispetto a quelle di riferimento. 

Per esempio: se il biosimilare in questione è una proteina – come molti biosimilari sono, dall’insulina agli anticorpi monoclonali ai fattori di crescita - questa dovrà avere la stessa sequenza di aminoacidi e la stessa struttura del farmaco di riferimento, ma sono tollerate piccole differenze, a livello per esempio delle glicosilazioni, cioè nelle molecole di zucchero attaccate alla proteina durante la maturazione stessa. Lo stesso livello di variabilità si può osservare non solo tra biosimilare e farmaco di riferimento ma anche tra lo stesso farmaco biologico in lotti diversi: va considerato come espressione della mancata replicabilità perfetta dei sistemi biologici usati per farli.

Come si dimostra la biosimilarità

Simili, ma diversi. Per natura variabili, pur entro precisi limiti. Ma quand’è che un farmaco si può definire biosimilare? 

Perché ciò avvenga è necessario dimostrare un’elevata similitudine con il farmaco di riferimento: si deve cioè garantire che funzioni al pari o in modo sostanzialmente sovrapponibile con questo. E che eventuali, piccolissime differenze dovute ai processi produttivi, non abbiano ripercussioni in termini di funzionalità e sicurezza.

Questo nella pratica si traduce in una serie di studi il cui scopo è la dimostrazione della similitudine non solo chimica e biologica ma anche di efficacia, sicurezza e immunogenicità (cioè la possibilità che una sostanza dia origine a una risposta immunitaria) con il farmaco di riferimento.

È un processo che comprende molti passaggi in quelli che vengono detti studi di comparabilità, durante i quali il medicinale è messo a confronto con quello di riferimento, a diversi livelli e con diverse tecniche di analisi, con studi in vitro, nei modelli animali se necessario e a livello clinico, in cui si paragonano qualitativamente la struttura del farmaco biosimilare e la sua funzione, si approfondisce il modo il cui il farmaco si lega al suo target, si compiono studi di tossicità. Fino ad arrivare agli studi clinici sull’uomo, che, a differenza del biologico di riferimento, non vengono svolti per dimostrare la sicurezza e l’efficacia del biosimilare nei pazienti che sono già state dimostrate per il medicinale di riferimento, ma per confermare la biosimilarità e sciogliere dubbi che potrebbero essere emersi nelle precedenti fasi di valutazione.

Gli studi di comparabilità, però, non vanno considerati un’esclusiva dei biosimilari, quanto piuttosto una caratteristica dei farmaci biologici in sé: durante la vita del medicinale sul mercato è verosimile infatti che possano cambiare i processi che permettono di produrlo. Questo potrebbe comportare modifiche che dovranno – così come per il biosimilare rispetto al farmaco di riferimento – passare il setaccio degli studio di comparabilità. Ovvero si dovrà dimostrare all’Ema che il farmaco si comporta essenzialmente allo stesso modo, in maniera dunque del tutto simile a quello che avviene per lo sviluppo di un biosimilare.

Se tutto procede per il verso giusto - cioè se il medicinale soddisfa i requisiti di qualità, sicurezza ed efficacia e si comporta come ci si aspetta - il nuovo biosimilare viene approvato. Il compito spetta all’Agenzia europea del farmaco, l’Ema, che valuta i dati presentati dalle aziende sviluppatrici tramite diversi comitati scientifici ed esperti in materia di farmaci biologici e biosimilari (quali il Committee for Medicinal Products for Human Use, il Pharmacovigilance and Risk Assessment Committee, il Biologics Working Party e il Biosimilar Working Party), in seguito ai quali si esprime il parere della Commissione europea.

Praticamente quasi tutti i biosimilari approvati nell’Unione europea hanno seguito la procedura di approvazione centralizzata, come previsto per i biotecnologici “originali”, vale a dire che con una sola autorizzazione è possibile commercializzare i farmaci corrispondenti in tutti i Paesi dell’Unione europea.

Opportunità biosimilari

L’arrivo dei farmaci biosimilari ha allargato la disponibilità per medici e pazienti dei medicinali biologici, una categoria di farmaci che ha rivoluzionato il trattamento di malattie croniche come il diabete, il cancro o le malattie autoimmuni. Veri salvavita, in alcuni casi, al punto che l’Organizzazione mondiale della sanità non esita a definirli esempi di «grandi conquiste umane».

I biosimilari, ampliando l’offerta, hanno ampliato anche la potenzialità che hanno. Tanto che l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, nel suo position paper in materia, scrive: «Lo sviluppo e l’utilizzo dei farmaci biosimilari rappresentano un’opportunità essenziale per l’ottimizzazione dell’efficienza dei sistemi sanitari ed assistenziali, avendo la potenzialità di soddisfare una crescente domanda di salute, in termini sia di efficacia e di personalizzazione delle terapie sia di sicurezza d’impiego. 

I medicinali biosimilari rappresentano, dunque, uno strumento irrinunciabile per lo sviluppo di un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, mantenendo garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e garantendo loro un accesso omogeneo, informato e tempestivo ai farmaci, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica».

Anche una volta iniziata la terapia eventualmente concordata con il paziente e secondo le politiche sanitarie locali, ricorda Ema. Quando avviene si parla di “switch”, a identificare lo scambio tra una terapia e l’altra, da biologico di riferimento a biosimilare o viceversa. Considerato a oggi, in termini generali, sicuro ed efficace, come riportava anche l’ultimo documento Aifa sul monitoraggio della sicurezza di questi farmaci: «Complessivamente, dall’analisi di sicurezza condotta per questa classe di medicinali, non risultano differenze significative tra originatori e biosimilari dovute, nello specifico, a mancanza di efficacia o allo switch tra un medicinale ed un altro Anche l’analisi della letteratura internazionale disponibile conferma l’assenza di differenze in termini di efficacia e sicurezza nell’uso di biosimilari e dei rispettivi originatori».

Fonte: IQVIA, The Impact of Biosimilar Competition in Europe

Così, gradualmente la quota di farmaci biosimilari in Italia si è allargata. Gli ultimi dati relativi al 2021 mostrano che le 15 molecole biosimilari in commercio nel nostro Paese hanno assorbito il 43% dei consumi nazionali (35% nel 2020) contro il 57% (65% nel 2020) detenuto dai corrispondenti originatori. Complessivamente nell’arco del 2021 i prodotti biosimilari hanno registrato una crescita dei consumi del 26,9% rispetto ai dodici mesi precedenti, mentre si è registrata una contrazione del 13,5% delle vendite di tutti gli altri farmaci biologici.

Cinque molecole biosimilari hanno ormai superato il biologico originatore: il primo è filgrastim biosimilare (farmaco essenziale per i pazienti in chemioterapia citotossica), i cui biosimilari in commercio hanno assorbito il 96,54% del mercato della molecola a volumi. Seguono gli anticorpi monoclonali infliximab (93,42% del mercato a volumi) e rituximab (93,08%), le epoetine (91,34%) e adalimumab (83,67%). 

La situazione è però molto diversificata tra le Regioni: limitandosi alle sole nove molecole in commercio da almeno tre anni (enoxaparina, epoetine, etanercept, filgrastim, follitropina, infliximab, insulina glargine, rituximab, somatropina), in testa ai consumi sono Valle d’Aosta e Piemonte (82,4%). Seguono Marche (77,8%), Basilicata(70,9%), Sicilia (68,3%), Emilia-Romagna(67,1%),Toscana (66,5%). Fanalini di coda Lombardia (29,4%), Puglia (32%), Trentino-Alto Adige (44,1%). Inoltre, tutte le Regioni hanno adottato delibere prescrittive che indirizzano verso il biologico a minor costo tranne Abruzzo, Emilia e Liguria.

Questa crescita dei consumi sta producendo risparmi cospicui per i sistemi sanitari. Secondo il white paper The impact of Biosimilar Competition in Europe realizzato da IQVIA (multinazionale che opera nei servizi al settore farmaceutico) per conto della Commissione europea, dal 2014 i biosimilari in Ue hanno ridotto i budget farmaceutici di circa il 5% e possono garantire ulteriori risparmi del 5-10% sul budget farmaceutico complessivo.

Tuttavia, notava già all’epoca il rapporto, «uno dei presupposti fondamentali per l'impatto della concorrenza sui biosimilari è che “prezzi più bassi dovrebbero comportare un maggior numero di pazienti trattati”. Questo non è sempre il caso e in molti casi si vede il contrario poiché un minor numero di pazienti viene trattato dopo l'introduzione di biosimilari».

Si torna così al tema dell’accesso. Pur ammettendo le difficoltà legate a tetti di spesa e carenza di risorse del servizio sanitario, perché una fetta così cospicua di pazienti non accede ai farmaci biotech?

Un problema di processo

Una riposta prova a fornirla Alberto Bortolami, della Direzione farmaceutico-protesica-dispositivi medici della Regione Veneto: «È necessario cambiare paradigma culturale», dice. «Dimenticare la visione farmaco-centrica e adottare una visione percorso-centrica. Perché a oggi è abbastanza chiaro: abbiamo una parte importante di pazienti che non sono trattati. Ciò avviene perché il farmaco costa tanto? No. Il problema è legato al percorso: molti pazienti sul territorio non accedono allo specialista».

È questo l’elefante nella stanza che il più delle volte non si vede.

«Parliamo di modelli organizzativi», dice Antonio Gaudioso: «Ci siamo affidati troppo agli ospedali che sono diventati come la coperta di Linus: se hai pochi centri, pochi professionisti, una capacità di presa in carico che non è proporzionale al bisogno terapeutico è normale che sorgano i problemi».

Per il prossimo futuro la riforma della sanità territoriale potrebbe arginare il problema: «La grande sfida della riforma dei servizi territoriali è creare un percorso che garantisca prossimità anche in termini di identificazione precoce delle persone che hanno certe patologie, della capacità di gestione e presa in carico, della capacità di somministrazione del percorso di cura che, tra le altre cose, deve essere il più prossimo possibile alle necessità delle persone», continua Gaudioso. Tuttavia, per oggi, «è evidente che uno dei problemi è anche il fatto che se ti devi spostare di ore per raggiungere il Centro di riferimento diventa un problema anche la capacità di avere una risposta».

È un aspetto che porta al pettine nodi antichi del Servizio sanitario nazionale: la ricchezza di alcune aree del Paese a cui fa da contraltare la povertà sanitaria di altre. E che richiama il tema delle diseguaglianze nella esigibilità del diritto alla salute. Non solo quello dell’accesso ai farmaci biologi ritratto dalla ricerca CliCon.

Quest’ultimo fenomeno, poi, potrebbe essere ancora peggiore di quanto rilevato.

«C’è una cosa che questi dati non raccontano», dice Collatina. «Noi abbiamo contato i pazienti che ricevono il trattamento e quelli che non lo ricevono. Ma non abbiamo rilevato il “quando” hanno iniziato il trattamento. Dal momento che uno dei temi decisivi con i farmaci biologici è la precocità dell’intervento, è probabile che se avessimo anche il time to event scopriremmo che questi dati sono ancora più drammatici perché con ogni probabilità, anche tra i pazienti in cura, molti di loro sono arrivati tardi al trattamento con biologici».

Bisogno di intelligenza

Risorse scarse. Un servizio sanitario che ha lasciato una prateria tra centri prescrittori e medici di famiglia. Un'articolazione regionale dell’assistenza che garantisce servizi tutt’altro che uniformi. Ma forse c’è dell’altro che spieghi il tema del sotto-trattamento: la completa assenza di antenne che riescano a cogliere il problema.

«Ci abbiamo messo cinque anni per convincere gli altri interlocutori dell’esistenza di un problema e portarli intorno a un tavolo» rimarca Collatina.

Sotto questo aspetto, le Associazioni svolgono un ruolo importante: «Mi giungono spesso segnalazioni di pazienti che stanno facendo farmaci sistemici che possono dare effetti collaterali anche importanti e, a causa di una mancanza di apertura informativa tra medico e paziente, non sanno neanche di avere il diritto di poter passare al farmaco biologico. Per cui vanno avanti per molti mesi con questi farmaci, il medico non li manda dallo specialista e così la malattia fa la sua strada» dice Valeria Corazza, presidente Apiafco (Associazione psoriasici italiani amici della fondazione Corazza).

Ma la capacità delle Associazioni di denunciare un problema è cosa diversa da uno strumento integrato nel sistema che consenta di cogliere segnali di allarme e intervenire.

Di qui la proposta, affiancata allo studio, di un nuovo strumento pensato per essere messo a disposizione delle amministrazioni sanitarie e definito “gain sharing”. «È uno strumento che affianca ai tradizionali indicatori economici sull’utilizzo dei farmaci biologici a minor costo, un indicatore clinico in grado di misurare il numero di pazienti eleggibili all’uso del biologico per una specifica patologia, ma non trattati. La lettura combinata dei due indicatori permetterà di programmare ex ante il reinvestimento delle risorse liberate per contenere il fenomeno del sotto trattamento», spiega Degli Esposti.

I dati sanitari e amministrativi, seppure non integrati e incapaci di parlare tra loro, già oggi ci consentono di farlo: «È possibile avere sistemi supporto alla decisione che segnalino se c’è un problema», dice ancora Collatina. «E che, quando rileva un paziente potenzialmente eleggibile al trattamento con biologico, lo segnali al medico o alla Asl. Perché alla fine il problema non è il biologico o il biosimilare - conclude il coordinatore dell'Ibg - ma dare il farmaco giusto a ciascun cittadino».