L'8 maggio di ogni anno ricorre la Giornata mondiale del tumore ovarico, istituita nel 2013 dalla World Ovarian Cancer Coalition
A quel tempo, solo dieci anni fa, l’80% delle donne ignorava l'esistenza di questa neoplasia
I trattamenti si limitavano quasi esclusivamente alla chemioterapia che, però, spesso non funzionava o era presto soggetta a recidive
In pochi anni la consapevolezza sulla malattia è cresciuta e sono giunti trattamenti che hanno fatto aumentare le possibilità di guarigione
Inoltre, per la prima volta, per una parte delle donne è possibile parlare di prevenzione
Tumori dell’ovaio. I dieci anni in cui tutto è cambiato
8 maggio 2023
Era il 2013 e un piccolo gruppo di Associazioni di pazienti europee, canadesi e australiane - tra cui l’italiana Acto - diedero vita alla prima Giornata mondiale sul tumore ovarico, una neoplasia di cui la stragrande maggioranza delle donne non sapeva nulla e per la quale i trattamenti si limitavano quasi esclusivamente alla chemioterapia che, però, molto spesso non otteneva risposta o era presto soggetta alla comparsa di resistenza e recidive.
Da allora sono passati esattamente dieci anni e lo scenario è profondamente cambiato.
«Eravamo pochi in quel 2013» ricorda la presidente di Acto Italia, Nicoletta Cerana. «All’epoca la Giornata fu seguita da qualche migliaio di pazienti e caregiver. Lo scorso anno, le poche migliaia di persone e qualche decina di Associazioni dei pazienti che avevano fatto nascere la Giornata mondiale sono diventati milioni. Nel 2022, cioè lo scorso anno, 28 milioni di persone hanno seguito la Giornata e vi hanno aderito 200 associazioni. Numeri straordinari che quest’anno ci si aspetta di superare».
L’adesione alla Giornata è lo specchio di qualcosa di molto più ampio che ha investito il mondo del tumore all’ovaio negli ultimi dieci anni.
«Abbiamo assistito e in parte siamo stati protagonisti di due rivoluzioni», racconta Nicoletta Cerana. «La prima è stata quella dell’informazione sulla malattia. Quando siamo nate nel 2010 come Acto, la prima cosa che decidemmo di fare è stata un’indagine per capire quante donne conoscevano il tumore ovarico. È emerso che soltanto due donne su dieci conoscevano la malattia. L’80% non lo conosceva e una quota consistente non ne aveva mai sentito parlare».
Nel tempo questa percentuale è enormemente cresciuta e oggi quello dell’ovaio è uno dei tumori femminili su cui c’è più consapevolezza.
Fuori dagli anni bui
La seconda rivoluzione ha investito l’ambito delle innovazioni terapeutiche.
«Quando siamo partiti, nel 2010, gli anni erano bui. Anni in cui la cura del tumore ovarico era molto limitata. Ed erano molto limitati anche gli anni di sopravvivenza. Si viveva meno. Poi, nello scorso decennio è partita la rivoluzione. I clinici hanno imparato a conoscere meglio il tumore ovarico, ma soprattutto hanno imparato a curarlo meglio. Magari non a guarirlo, ma sicuramente a trattarlo in maniera tale da garantire alle pazienti un numero sempre maggiore di anni di sopravvivenza», continua Cerana.
Nicoletta Colombo dirige il Programma Ginecologia all’Istituto europeo di oncologia e ha seguito da vicino questi anni. Giocando un ruolo da protagonista. «Lo dico sempre: dopo quarant'anni che tratto il carcinoma ovarico, questi ultimi cinque anni sono quelli più eccitanti di tutta la mia carriera professionale, proprio per il beneficio che abbiamo osservato nelle pazienti associato all’utilizzo di questi farmaci».
È un percorso lungo in cui, all’improvviso, dopo anni di buio si è visto uno spiraglio di luce.
Per tutti gli anni Novanta e i primi dieci anni del nuovo Millennio, mentre molti altri tumori venivano rivoluzionati dall’avvento dei farmaci a bersaglio molecolare e dalle terapie di precisione, il tumore all’ovaio è rimasto legato ai trattamenti più tradizionali. Importanti ancora oggi, ma non risolutivi e spesso poco efficaci.
«Per molti anni abbiamo utilizzato solo la chemioterapia e in modo particolare due farmaci, carboplatino e paclitaxel, cercando di applicare la medicina di precisione anche al carcinoma ovarico», ricorda Colombo. La ragione, precisa, è che, a differenza di altri tumori, non ha bersagli specifici noti.
Le target therapy, infatti, funzionano scardinando meccanismi chiave nel funzionamento delle cellule tumorali, bersagliando una componente - spesso una proteina mutata - di cui non può fare a meno. «Nel caso del tumore all’ovaio esiste un grande caos genomico, ma a lungo non si è riuscito a trovare un target chiaro», osserva l'esperta.
Negli ultimi anni, finalmente, anche per il tumore dell’ovaio la ricerca ha identificato un target possibile. Ci si è accorti, infatti, che una parte dei tumori ovarici ha un difetto in un meccanismo di riparazione del Dna.
Tutte le nostre cellule hanno sofisticati meccanismi che correggono gli errori che quotidianamente si verificano nel Dna, casualmente quando la cellula si divide o sotto la pressione di agenti esterni. Riparare questi incidenti di percorso è fondamentale per preservare il corretto funzionamento della cellula. Così importante che nei casi in cui la cellula non riesce a ripararli attiva i programmi cellulari che portano al suicidio cellulare.
«Abbiamo scoperto che ci sono tumori ovarici in cui questo meccanismo è alterato. In modo particolare, questo succede nelle pazienti che hanno la mutazione del gene BRCA che conferisce un rischio aumentato di sviluppare tumore ovarico e che può essere ereditata dal padre o dalla madre», spiega Colombo. «Ma non solo questi: si è visto infatti che circa il 50% delle neoplasie ovariche può avere questo difetto del meccanismo del riparo che si chiama deficit della ricombinazione omologa, in sigla HRD, homologous recombination deficit».
Il passo successivo è stato capire in che modo sfruttare questa peculiarità a fini terapeutici. A questo scopo si è usato un approccio che viene definito di “letalità sintetica”: «In altre parole, per sopperire al deficit della ricombinazione omologa queste cellule utilizzano meccanismi alternativi per riparare il danno al Dna. Noi interveniamo bloccando questi altri meccanismi del riparo, come quelli che utilizzano alcuni enzimi chiamati PARP. Interveniamo con un inibitore di PARP e a questo punto la cellula non riesce più riparare in nessun modo il danno al Dna e va incontro a morte programmata, la cosiddetta apoptosi», aggiunge Colombo.
Tumore dell'ovaio: l'identikitIl tumore dell’ovaio (ma in realtà dell’ovaio, delle tube di Falloppio e del peritoneo) è l’ottavo tumore più diagnosticato tra le donne. Colpisce con più frequenza le donne con più di cinquanta anni, ma tende a comparire più precocemente nelle portatrici di mutazioni a carico dei geni BRCA 1 e 2. In Italia circa 50 mila donne convivono con questo tumore e ogni anno si registrano più di 5 mila nuovi casi. Presenta una mortalità elevata, soprattutto per il ritardo nella diagnosi: circa l’80% dei casi viene infatti diagnosticato in fase avanzata (stadio III o IV). Ciò è dovuto all’assenza di strumenti per la diagnosi precoce e dal fatto che presenta sintomi poco riconoscibili, che spesso vengono confusi con quelli di altre patologie, per esempio la sindrome del colon irritabile. In particolare i segnali di allarme possono essere gonfiore persistente dell’addome, fitte addominali, bisogno frequente di urinare, inappetenza e/o sensazione di sazietà anche a stomaco vuoto, perdite di sangue dalla vagina, comparsa di stitichezza o diarrea. Quando questi sintomi compaiono frequentemente è importante rivolgersi al ginecologo. La diagnosi di tumore ovarico avviene inizialmente con l’ecografia pelvica e la misurazione di alcuni marker tumorali, a cui possono seguire ulteriori indagini di imaging (Tac, risonanza magnetica, Pet). Il trattamento prevede l’esecuzione dell’intervento chirurgico per l’asportazione del tumore che può avere diversi gradi di invasività. Imprescindibile è la chemioterapia, in genere a base di carboplatino e paclitaxel. Altri trattamenti sono la terapia anti-angiogenica e i farmaci PARP inibitori. |
Lo tsunami delle terapie
L’avvento dei farmaci PARP inibitori ha cambiato radicalmente il trattamento del tumore ovarico.
In una prima fase sono stati usati dopo il fallimento della terapia di prima linea e hanno dimostrato di essere in grado di ritardare ulteriori recidive: questo è già stato un successo enorme, dal momento che le pazienti in questa fase della malattia avevano pochi o nessuna opzione di trattamento efficace.
«Ma la grande novità degli ultimi cinque anni è stata la dimostrazione che questi farmaci sono efficaci anche in prima linea, quindi subito dopo la diagnosi. Li usiamo al termine della chemioterapia, che comunque rimane lo standard, poi si utilizzano questi farmaci nel mantenimento assumendoli per via orale per due o tre anni», illustra Nicoletta Colombo.
«Questo ha rappresentato una rivoluzione perché, sulla base dei risultati a lungo termine di questo trattamento, abbiamo osservato qualcosa di mai visto prima. Cioè il beneficio non è soltanto quello che chiamiamo sopravvivenza senza progressione, cioè quanto tempo la paziente rimane senza recidiva. Abbiamo dati di sopravvivenza globale che indicano che con questi farmaci possiamo anche ipotizzare, per la prima volta, di riuscire a guarire più pazienti rispetto al passato e questa cosa non era mai stata osservata».
Si tratta di un grande progresso che, tuttavia, pone sfide nuove.
«Fortunatamente l’evoluzione nella ricerca e nelle terapie permette alle donne di vivere di più al punto che si parla di cronicizzazione della malattia», spiega Gabriella Pravettoni, direttrice della Divisione di Psiconcologia dell’Istituto Europeo di Oncologia e docente all'Università di Milano. «In questa cronicizzazione, l’aspettò più importante è quello dello stare bene vero e della qualità di vita. Umberto Veronesi ci ha insegnato che un conto è curare il corpo, un conto è curare la mente: non c’è mai un benessere vero e definitivo della donna se non ci prendiamo cura della nostra mente e del nostro benessere psicologico», aggiunge Pravettoni.
Tumore Ovarico. Manteniamoci informate!
“Tumore Ovarico. Manteniamoci informate! Da donna a donna” è una campagna di sensibilizzazione ideata e realizzata da Pro Format Comunicazione e Mad Owl in collaborazione con le Associazioni ACTO, LOTO, Mai più sole e aBRCAdabra onlus, e sponsorizzata in esclusiva da GSK, dedicata alle informazioni sulla malattia e i percorsi di cura. L’obiettivo della campagna è invitare le donne e le pazienti a “mantenersi informate” perché grazie ai progressi nella ricerca, diagnosi e terapia, sul fronte del tumore ovarico di anno in anno aumentano le novità da conoscere: - le innovazioni terapeutiche, che stanno migliorando sopravvivenza e qualità di vita; - i test molecolari, che permettono alle pazienti di accedere al trattamento più appropriato per il proprio tipo di tumore e che in futuro potranno esaminare contemporaneamente molti tipi di alterazioni genetiche, grazie al Comprehensive Genomic Profiling; - la chirurgia, sempre più precisa e meno invasiva; - l’importanza di mantenersi sempre informate sulla malattia e i suoi sintomi: riconoscere per tempo i segnali della malattia nelle fasi iniziali permette di anticipare la diagnosi e aumenta le chance di guarigione. Nel 2022 la campagna, giunta alla sua terza edizione, ha promosso l’informazione alle pazienti con tumore ovarico dando direttamente la parola alle donne: pazienti delle associazioni promotrici della campagna – ACTO, LOTO, Mai più sole e aBRCAdabra onlus – che si sono già confrontate con la diagnosi di tumore ovarico condividono consigli ed esperienze sul percorso di cura attraverso videomessaggi “da donna a donna”; 8 brevi video dedicati ad aspetti chiave come la scoperta della malattia, il rapporto con i medici, le risorse che aiutano a ritrovare la propria qualità di vita. Inoltre, ha promosso incontri in quattro capoluoghi realizzati in modalità mista – in presenza e online – nei quali pazienti e caregiver potranno mantenersi informate rivolgendo le loro domande agli specialisti su percorso di cura, test genetici, terapie di mantenimento, qualità di vita. Ad arricchire la campagna, una serie di card illustrate dal visual designer Gaetano Di Mambro per raccontare in modo nuovo alcuni momenti del percorso di cura delle pazienti con tumore ovarico. Le card, dallo stile morbido e intimistico, sono state veicolate attraverso il sito di campagna e la campagna social. L’iniziativa ha inoltre previsto campagne negli ambulatori onco-ginecologici attraverso leaflet informativi con messaggi. |
Il ruolo dei test genomici
L’avvento della medicina di precisione nel campo del tumore dell’ovaio ha messo l’accento sul ruolo degli esami necessari a identificare le vulnerabilità molecolari che rendono possibili i nuovi trattamenti.
«Il test BRCA nell’ovaio è un test che noi utilizziamo da moltissimi anni», spiega Giancarlo Pruneri, direttore del Dipartimento di Diagnostica avanzata della Fondazione Irccs Istituto nazionale tumori e professore ordinario in Anatomia patologica all’Università di Milano. «Ricordiamo che BRCA ha una doppia valenza: le mutazioni di BRCA sono molte importanti perché qualora identificate assegnano un rischio a un soggetto normale di sviluppare una neoplasia; negli ultimi anni, poi, dopo la scoperta dei PARP inibitori, l’identificazione di alterazioni di BRCA nel tumore - quelle chiamate somatiche - sono diventate fondamentali per il trattamento della paziente con tumore ovarico», sottolinea Pruneri.
Negli ultimi anni, a BRCA si è affiancato HRD. Si è dimostrato infatti che non solo le pazienti con mutazioni BRCA ma anche quelle con deficit della ricombinazione omologa possono beneficiare del trattamento con PARP inibitori. Ciò ha ampliato le possibilità di accesso al farmaco.
«La situazione di accesso al test è tuttavia al momento insufficiente a livello nazionale, ma anche a livello europeo e in Usa», rileva Pruneri. «Ciò per due motivi: innanzitutto non è stato implementata e distribuita la capacità tecnica nei laboratori di patologia di identificare queste alterazioni, il secondo riguarda il rimborso da parte dei Servizi sanitari regionali», dice Pruneri. «Tuttavia, la consapevolezza dell’importanza di questi test sta crescendo e il Ministero ha allocato dei fondi per fare questo tipo di test. La situazione non è ancora ideale - conclude l'esperto - ma sono abbastanza ottimista perché stiamo andando velocemente verso una situazione di distribuzione del test e di copertura dei bisogni dei pazienti».
Prevenzione (IM)possibile
C’è un altro cambiamento che la medicina di precisione ha portato nel campo dei tumori dell’ovaio: per la prima volta è stato scalfito un paradigma che sembrava assoluto e che è tra le cause della difficoltà di cura di questa patologia, cioè l’impossibilità di prevenzione e diagnosi precoce.
Attualmente non sono noti fattori di rischio prevenibili per il tumore all’ovaio, come, per esempio, il fumo di sigaretta per il tumore del polmone. Si sa solo che è una neoplasia che compare più frequentemente nelle persone obese, in chi ha avuto una prima mestruazione precoce e una menopausa tardiva senza avere avuto figli.
Non esiste nemmeno un test di screening che consenta la diagnosi precoce. Da tempo si studiano diverse strategie: una tra le più promettenti è considerata l’esecuzione, nelle donne a rischio, dell’ecografia con la misurazione dei livelli di un marcatore tumorale (CA125) nel sangue. A oggi, tuttavia, non sembra che questo approccio abbia ricadute in termini di riduzione della mortalità.
La conoscenza delle mutazioni BRCA come possibili fattori di rischio per il tumore ha però aperto nuovi scenari.
Come visto, il test BRCA è uno dei parametri che guida la scelta della terapia con PARP inibitori. Le donne con tumore dell’ovaio oggi si sottopongono al test somatico per la ricerca delle alterazioni sui geni BRCA. È un esame che viene eseguito sul tumore e indica la presenza degli errori genetici soltanto nelle cellule tumorali.
A fianco di questo, esiste un altro tipo di test: quello cosiddetto germinale. Viene effettuato con un campione di sangue o di saliva e indica la presenza di mutazioni che possono essere ereditarie e che possono essere trasmesse ai figli ed essere presenti anche in consanguinei, come le sorelle.
In caso di positività al test germinale, si può decidere di informare i parenti consentendo loro di sottoporsi a test genetico e scoprire se anch’essi sono portatori della alterazione genica. In tal caso esiste la possibilità di mettere in atto strategie di prevenzione, che, per quanto molto invasive, possono ridurre drasticamente la probabilità di sviluppare tumore dell’ovaio. Si tratta infatti di un intervento di chirurgia preventiva che comporta l’asportazione di entrambe le tube e le ovaie.
«Non è per niente facile perché noi trasformiamo la vita delle altre persone della nostra famiglia coinvolgendole in un percorso in cui non tutti vogliono essere coinvolti», dice Pravettoni. «Mai come in questo caso è importantissimo fare un percorso psicologico per avere la consapevolezza di fare una buona scelta».
Una guida e un supportoQuanto è utile per una donna con tumore ovarico avere un punto di riferimento sul territorio come quello che può rappresentare un’Associazione? Lo abbiamo chiesto alla presidente di Acto Italia, Nicoletta Cerana. «Per una paziente avere un riferimento sul territorio significa innanzitutto avere un’Associazione che la orienta verso i Centri migliori per la cura del tumore ovarico. Questo tumore non è infatti una neoplasia che si può curare sotto casa. È un tumore molto complesso che richiedere di essere trattato in centri specialistici», dice Cerana. « Significa inoltre poter usufruire di una serie di servizi complementari che aiutano le pazienti durante i percorso di cura. Sono servizi di supporto psicologico, di consulenza nutrizionale, programmi di movimento o di yoga, di mindfulness», aggiunge. «Vorremmo anche riuscire a fornire servizi di supporto per la parte sessuologia che è una delle parti più dimenticate quando si parla di tumori ginecologici. Ma è la parte più importante. Quando si parla di sesso a proposito di tumori ginecologici, infatti, non si parla di problemi inerenti la seduzioni o la bellezza della donna, ma problemi che riguardano l’essenza prima della donna. Noi siamo progettate per fare figli e quindi queste patologie ci tolgono la nostra essenza». Il tema della sessualità, continua la presidente Acto, è un «argomento di cui nessuno vuole parlare: le stesse donne non affrontano molto volentieri il tema del rapporto di coppia perché è un fatto molto intimo; all’interno dell’ospedale inoltre non si ha un vero interlocutore». «Questi servizi - prosegue Cerana - vengono dati da tutte le otto sedi territoriali Acto. In alcuni casi con dei percorsi all’interno all’ospedale: in molti ospedali, per esempio, sono stati avviati percorsi di onco-estetica. In altri casi sono istituiti percorsi extra-ospedalieri. Per esempio, già nel 2015, a Bari la Acto Puglia, insieme ad altre Associazioni di pazienti per neoplasie femminili, era riuscita a riadattare la vecchia Casa delle donne del Mediterraneo ad ambulatorio diurno per fornire ciò che le donne non trovavano all’ospedale: il linfodrenaggio, l’onco-estetica, la consulenza psicologica. Acto Piemonte ha aperto una fattoria sociale in cui si fa un po’ di tutto, ma fondamentalmente è una luogo in cui si possono erogare queste terapie complementari anche all’aperto. Le donne amano seguire questi programmi fuori dall’ospedale: è un modo per sentirsi meno malate», conclude. |
I prossimi passi
I risultati ottenuti negli ultimi anni hanno cambiato lo scenario. «Esiste però ancora una fetta di pazienti che non ce la fa e per questo non ci dobbiamo fermare qua», dice Nicoletta Colombo.
Una dei quesiti aperti è frutto proprio dell’avvento delle nuove terapie. L’utilizzo dei PARP inibitori nella prima linea di trattamento ha infatti aperto un campo di incertezza su cosa fare nel caso di comparsa di recidive. «Non è dimostrato che possano essere nuovamente efficaci alla recidiva», spiega Colombo.
La ricerca è al lavoro per fornire risposte. «Una classe di farmaci che sta emergendo e che nel futuro avrà una grande influenza è quella dei cosiddetti farmaci anticorpo-coniugati. Si tratta di un chemioterapico legato a un anticorpo. Questo anticorpo riconosce un recettore sul tumore e porta il farmaco direttamente sulla cellula tumorale, che poi lo internalizza. È un po' il concetto del cavallo di Troia: anziché immettere il farmaco nel circolo sanguigno, lo si veicola in maniera precisa sul tumore grazie all’anticorpo», precisa Colombo.
Questa classe di farmaci sta dando risultati promettenti; nei mesi scorsi in Usa è stato approvato il primo medicinale di questo tipo nel tumore dell’ovaio. L’Agenzia per i farmaci europea, l'Ema, sta attendendo invece i risultati di ulteriori studi per esprimersi.
Un altro filone su cui è impegnata la ricerca è quello dell’immunoterapia, specie quello dei cosiddetti inibitori dei checkpoint immunitari. «Questo approccio ha fatto miracoli in alcune neoplasie, ma nel tumore dell’ovaio abbiamo avuto tante delusioni», ricorda l’esperta. «Però non è finita: sono in corso ulteriori studi che speriamo diano risultati migliori. Inoltre, si stanno esplorando altri approcci immunoterapici, come l’utilizzo di interleuchine ingegnerizzate».
Sono in corso anche le prime sperimentazioni con terapie cellulari, un approccio che si è mostrato efficace in tumori ematologici, ma che finora ha avuto meno successo in quelli solidi.
«Inoltre, si sta cercando di capire come contrastare la resistenza ai PARP inibitori», aggiunge Colombo. «Dopo avere usato questi farmaci in prima linea, una parte delle pazienti presenta recidiva. In questi casi i PARP inibitori da soli, probabilmente, non sono efficaci. Forse perché il deficit della ricombinazione omologa in molti casi viene perso strada facendo. Si sta cercando di capire questi meccanismi di resistenza e come superarli, magari associando ai PARP inibitori altri farmaci, per esempio anti-angiogenici o immunoterapici».
Ciò potrebbe ripristinare i meccanismi che rendono le cellule tumorali sensibili agli inibitori di PARP che, in tal modo, potrebbero essere usati nuovamente.
«Stiamo vivendo un momento di grande eccitazione. Negli ultimi cinque anni abbiamo visto una rivoluzione nel trattamento di prima linea con questi nuovi farmaci che rendono possibile aumentare il potenziale di guarigione di questi pazienti. Ma non è finita, ci sono ancora molti altri studi in corso. Per questo - conclude Colombo - mi sento di essere ottimista e positiva».