Anche i batteri 'spettatori' diventano resistenti agli antibiotici
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Così sembra non esserci scampo. Diventa veramente un’impresa combattere la resistenza agli antibiotici se a diventare resistenti non sono solo i microbi presi di mira dai farmaci, ma anche gli altri che si trovano nei paraggi e che sono solo spettatori innocenti, senza alcuna responsabilità nell’infezione.
La possibilità che gli antibiotici scatenino una resistenza indiretta è emersa in uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences secondo il quale il problema riguarda soprattutto i bambini che vivono in Paesi poveri che generalmente ospitano una grande quantità di batteri patogeni nel loro intestino, molti dei quali restano asintomatici non arrivando a provocare infezioni. I ricercatori hanno condotto un’analisi secondaria sui dati dello studio MAL-ED sulle infezioni enteriche e sulle malattie diarroiche dei bambini di 8 Paesi dell’Asia meridionale, dell’Africa e del Sudamerica seguiti dalla nascita fino ai due anni di vita con un monitoraggio attento delle condizioni di salute attraverso esami periodici delle feci.
Per il nuovo studio sono stati esaminati tutti i cicli di antibiotici prescritti per ciascun bambino e sono stati analizzati i risultati delle analisi delle feci nei 30 giorni precedenti al trattamento. Sono stati coinvolti in tutto 1.715 bambini che hanno ricevuto 15.697 cicli di antibiotici.
L’obiettivo della nuova indagine era valutare la frequenza con cui i batteri enterici patogeni come Escherichia coli, Campylobacter e Shigella, che sono cause comuni di diarrea venivano esposti agli antibiotici che i bambini ricevevano per altre malattie, come le infezioni del tratto respiratorio.
I ricercatori hanno contato oltre 22mila casi di esposizione agli antibiotici dei batteri gastroneterici non sintomatici. Per ogni patogeno analizzato non responsabile dell’infezione trattata con la terapia antibiotica ci sono state più di 7 esposizioni agli antibiotici all’anno.
L’Escherichia coli enteroaggregativo è stato il patogeno enterico più frequentemente esposto alla terapia antibiotica.
Quasi tutte le esposizioni agli antibiotici per Campylobacter (98,8%), E. coli enterotossico (95,6%) e Shigella (77,6%) si sono verificate quando quei patogeni non erano l'obiettivo del trattamento. Le infezioni delle vie respiratorie superiori (37,6%) e le infezioni acute delle vie respiratorie inferiori (12,3%) hanno rappresentato quasi la metà (49,9%) dei cicli di antibiotici che hanno interessato in maniera indiretta i microbi fuori bersaglio, mentre le malattie diarroiche hanno rappresentato il 24,6 per cento.
Il problema della resistenza agli antibiotici “di seconda mano” non riguarda necessariamente il diretto interessato. Può darsi per esempio che un bambino ospiti batteri di Shygella diventati resistenti in seguito a una terapia antibiotica usata per colpire un altro “nemico”, senza però subire alcuna conseguenza per la salute.
«Quel bambino probabilmente starà bene, ma poi la Shigella viene trasmessa a qualcun altro nella comunità, finisce per causare la malattia e, poiché è resistente, quando quell'individuo assume il trattamento, questo potrebbe non avere effetto», spiegano gli autori dello studio.
I rischi per la comunità emergono chiaramente dall'analisi di 2.630 batteri E. coli isolati da 505 bambini, l’87 per cento dei quali ha mostrato resistenza ad almeno un antibiotico. Una seconda analisi ha mostrato che l'esposizione dei batteri “spettatori” agli antibiotici macrolidi nei 30 giorni precedenti è associata a un aumento del 29 per cento della prevalenza della resistenza a questo tipo di antibiotici.
I dati dello studio impongono un cambio di prospettiva nella lotta all’antibiotico resistenza, introducendo una strategia di attacco indiretto.
«I nostri risultati suggeriscono che la riduzione dell'uso di antibiotici per le infezioni respiratorie può avere un impatto maggiore sullo sviluppo della resistenza nei patogeni enterici rispetto alla riduzione diretta dell'uso di antibiotici per il trattamento dei batteri enterici», commenta Elizabeth Rogawski McQuade, epidemiologa della Emory University's Rollins School of Public Health, che ha guidato lo studio.