La mano bionica diventa sempre più naturale: la protesi si fonde con il sistema nervoso e scheletrico
Sposta oggetti con disinvoltura, preme pulsanti, compie movimenti precisi e rapidi, quasi naturali. Per esempio afferra tra l’indice e il pollice il cursore di una chiusura lampo e lo fa scorrere tanto quanto serve per chiudere la valigia. E tutto questo Karin lo fa, e da parecchio tempo, con la mano destra, proprio quella che 20 anni fa le venne amputata in seguito a un incidente in un’azienda agricola. Al suo posto adesso c’è una protesi bionica dotata di una tecnologia innovativa che diventa un tutt’uno con il sistema scheletrico e nervoso dell’arto amputato. L’arto artificiale è uno dei risultati di punta del progetto DeTOP finanziato dalla Commisione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020 che è stato coordinato da Christian Cipriani, della Scuola Sant’Anna, Pisa.
La protesi descritta su Science Robotics è stata utilizzata da Karin, la donna svedese che ha subito l’amputazione, tutti i giorni per tre anni ed è ancora perfettamente funzionante. Non solo: grazie all’integrazione della mano bionica con le parti rimaste intatte dell’arto, la paziente ha trovato sollievo dal dolore causato dalla cosiddetta “sindrome dell’arto fantasma” e ha potuto ridurre notevolmente il consumo di farmaci. Non sono traguardi da poco.
I bioingegneri impegnati nella realizzazione di una protesi, si trovano di fronte sempre le stesse sfide: trovare un modo semplice, efficace e indolore di attaccare l’arto artificiale all’arto naturale e garantire la capacità di controllo dei movimenti. Spesso le persone che hanno perso un braccio, una gamba o una mano rinunciano all’ausilio meccanico proprio perché il sistema di aggancio è troppo complicato o doloroso oppure perché manovrare la protesi richiede sforzi eccessivi con risultati insoddisfacenti.
La protesi che sta usando Karin è diversa. Un gruppo di ricercatori multidisciplinari composto da ingegneri, chirurghi, ortopedici, ha sviluppato un’interfaccia uomo-macchina basata sull’osteointegrazione, ossia l’impianto del supporto protesico all’interno dell’osso residuo, e che attiva connessioni elettriche con il sistema nervoso attraverso elettrodi impiantati nei nervi e nei muscoli.
«Karin è stata la prima persona con amputazione sotto il gomito a ricevere questo nuovo modello di mano bionica altamente integrata che può essere utilizzata in modo indipendente e affidabile nella vita quotidiana. Il fatto che da anni Karin sia in grado di utilizzare la protesi in modo confortevole ed efficace nelle attività quotidiane è una promettente testimonianza delle potenziali capacità di questa nuova tecnologia capace di cambiare la vita delle persone che soffrono di perdita degli arti», ha dichiarato Max Ortiz Catalan, a capo della ricerca sulle protesi neurali presso il Bionics Institute in Australia e fondatore del Center for Bionics and Pain Research (CBPR) in Svezia.
I ricercatori hanno realizzato un impianto neuromuscoloscheletrico che consente di connettere il sistema nervoso del paziente con il sistema di controllo elettronico della protesi.
«Il nostro approccio chirurgico e ingegneristico integrato spiega anche la riduzione del dolore. Karin infatti ora utilizza per controllare la protesi più o meno le stesse risorse neurali che ha utilizzato per la sua mano biologica mancante», spiega Ortiz Catalan.
Come già detto, uno dei punti di forza della nuova tecnologia protesica è proprio la procedura dell’osteointegrazione: il processo mediante il quale il tessuto osseo si unisce al titanio creando una forte connessione meccanica.
«L’integrazione biologica degli impianti in titanio nel tessuto osseo consente di migliorare la qualità di vita degli amputati. Combinando l’osteointegrazione con la chirurgia ricostruttiva, gli elettrodi impiantati e l’intelligenza artificiale, possiamo ripristinare la funzione umana con un’efficacia senza precedenti», commenta Rickard Brånemark, professore associato all’Università di Göteborg che ha guidato l’intervento chirurgico e lavora con l’osteointegrazione per le protesi degli arti sin da quando sono state utilizzate per la prima volta negli esseri umani.
I nervi e i muscoli del moncone sono stati riorganizzati per fornire alla protesi una maggiore fonte di informazioni sul controllo motorio.
«A seconda delle condizioni cliniche, possiamo offrire la migliore soluzione per i nostri pazienti che a volte è di tipo biologico con un trapianto di mano e talvolta è di tipo bionica con protesi neuromuscoloscheletriche. Stiamo facendo progressi continuamente in entrambi», spiega Paolo Sassu che lavora all'Istituto Ortopedico Rizzoli in Italia e presso il Centro di ricerca sulla bionica e sul dolore in Svezia, che ha condotto questa parte dell'intervento all'Ospedale Universitario Sahlgrenska in Svezia.