Semplificazione e digitale per rilanciare la ricerca clinica. Ma servono anche più fondi

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Semplificazione e digitale per rilanciare la ricerca clinica. Ma servono anche più fondi

di redazione

È necessario che almeno una parte dei 20 miliardi che il Recovery Plan destina alla sanità siano riservati alla ricerca clinica indipendente.

È questa la richiesta avanzata lunedì 4 maggio in una conferenza stampa on line da importanti associazioni gruppi di esperti che si occupano di sperimentazioni nel nostro Paese: Acc (Alleanza contro il cancro), Fadoi (Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti), Ficog (Federation of italian cooperative oncology groups), Fondazione Gimema (per la promozione e lo sviluppo della ricerca scientifica sulle malattie ematologiche) e Gidm (Gruppo italiano data manager).

Nel 2018 il nostro ministero della Salute ha erogato soltanto 24 milioni e 163 mila euro per sostenere le sperimentazioni non sponsorizzate dall’industria: un abisso separa questa cifra dagli 806 milioni di dollari erogati negli Stati Uniti nel 2017 solo per gli studi sul cancro.

Le Associazioni hanno perciò inviato alle Istituzioni un documento in cui vengono delineati i tre capisaldi per il rilancio della ricerca clinica a partire dai criteri per semplificare, armonizzare e velocizzare le procedure autorizzative, che richiedono tempi ancora troppo lunghi. Inoltre, il documento sottolinea la necessità di stabilizzare contrattualmente il personale di supporto, in particolare i coordinatori di ricerca clinica (data manager). Il terzo capitolo riguarda il potenziamento delle infrastrutture digitali per garantire un salto di qualità degli studi.

Per procedere più rapidamente possibile le Associazioni chiedono anche di istituire al più presto un tavolo tecnico istituzionale.

«Nel 2019, in Italia, sono state autorizzate 672 sperimentazioni, 516 profit e 156 no profit. E quasi il 40% ha riguardato l’oncologia» ricorda Carmine Pinto, presidente Ficog. «Le difficoltà a cui va incontro la ricerca non sponsorizzata dall’industria – prosegue - sono sintetizzate nella diminuzione del 4,1% del numero di studi indipendenti dal 2018, quando erano il 27,3% del totale, al 2019, scese al 23,2%. La parola d’ordine deve essere innanzitutto semplificazione, anche cogliendo le esperienze positive maturate durante la pandemia, che ha imposto la rapida attivazione di protocolli di studio per affrontare il Covid mantenendo attive le sperimentazioni in corso su tutte le altre patologie».

Inoltre «serve maggiore uniformità della documentazione richiesta dai vari Comitati etici – sottolinea Dario Manfellotto, presidente Fadoi. «L’approvazione della lettera informativa per il paziente e del modulo di consenso rappresenta un passaggio critico del percorso autorizzativo – precisa - che fa emergere le differenze fra singoli regolamenti dei Comitati etici territoriali. La richiesta, da parte del Comitato etico, di apportare correzioni e integrazioni alla modulistica del consenso informato è molto frequente e onerosa anche in termini temporali, in particolare per le sperimentazioni multicentriche». Per Manfellotto, allora, «può essere valutata positivamente la proposta, formulata dal Centro di Coordinamento nazionale dei comitati etici territoriali, di specifiche linee di indirizzo per la raccolta del consenso informato, che devono essere applicate in maniera uniforme a livello nazionale».

Altra criticità è quella del personale addetto in ricerca e sviluppo, che in Italia è intorno a nove su mille unità di forza lavoro, rispetto alle 15 per mille della Germania e a una media dell’Unione europea di circa il 12 per mille. Il nostro Paese è fanalino di coda tra quelli dell'Ocse anche per numero di ricercatori occupati. «La gestione delle sperimentazioni cliniche sta diventando sempre più complessa – osserva Celeste Cagnazzo, presidente Gidm - tanto da richiedere competenze specifiche e multidisciplinari, che comprendono non solo aspetti scientifici ma anche ambiti di carattere etico, normativo e organizzativo». Una evoluzione che richiederebbe diverse figure professionali come i coordinatori di ricerca clinica, infermieri di ricerca, biostatistici, esperti in revisione di budget e contratti. Ma a oggi, sottolinea Cagnazzo, «risulta quasi impossibile ottenere la stabilizzazione di queste professionalità all’interno dell’organizzazione sanitaria».

Non per nulla assistiamo quindi a «una costante migrazione di personale esperto e qualificato verso aziende farmaceutiche e organizzazioni di ricerca a contratto – rammenta infine Marco Vignetti, presidente della Fondazione Gimema – con la creazione di un preoccupante gap professionale che rischia di compromettere l’efficienza e la qualità della ricerca, soprattutto quella di natura accademica».