Lo strano caso delle balene: miliardi di cellule nell’organismo e nessun rischio di cancro

L’interrogativo

Lo strano caso delle balene: miliardi di cellule nell’organismo e nessun rischio di cancro

Humpback_Whales_-_Flickr_-_Christopher.Michel_(38).jpg

Immagine: Christopher Michel, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons
di redazione
La statistica dovrebbe giocare a loro sfavore. Con l’enorme quantità di cellule nel loro organismo, le probabilità che alcune di queste diventino cancerose dovrebbero essere alte. Eppure balene ed elefanti non si ammalano di cancro. Gli studiosi stanno cercando di scoprire il perché

L’anomalia era già stata notata per gli elefanti: animali così grandi non si ammalano di cancro. Eppure l’elevato numero di cellule indurrebbe a pensare il contrario: la probabilità che almeno una di quelle cellule subisca un danno al Dna innescando il processo che porta al tumore dovrebbe essere, in linea teorica, più alta che negli animali di dimensioni più piccole. 

Vale lo stesso per le balene. Anche i giganteschi mammiferi acquatici vengono risparmiati dal cancro, a differenza di specie molto meno imponenti come cani, gatti e volpi. Lo strano caso degli animali titanici privi di patologie oncologiche è noto tra gli scienziati come “paradosso di Peto”, dal nome del medico britannico che per primo ha colto la stranezza epidemiologica: l'incidenza del cancro tra le specie animali non sembra correlata al numero di cellule dell’organismo.

Un recente articolo sul Guardian ricorda che sono già in molti i ricercatori che stanno cercando di risolvere il mistero: come mai alcune specie sono più suscettibili di altre al rischio di sviluppare un tumore? Scoprirlo potrebbe aiutare a comprendere meglio i meccanismi che danno origine alla malattia negli esseri umani e anche, forse, a individuare nuove strategie protettive. 

Tra i più attivi in questo campo di indagine ci sono gli scienziati del Wellcome Sanger Institute, di Cambridge che hanno avviato una serie di studi in collaborazione con la Zoological Society of London (ZSL).

«Il cancro si verifica quando una cellula del corpo subisce una serie di mutazioni nel suo DNA e inizia a dividersi in modo incontrollabile, e le difese del corpo non sono capaci di fermare questa crescita. Più cellule possiede un animale, maggiore è il rischio che una di queste diventi cancerosa», ha spiegato al Guardian Alex Cagan, a capo del progetto del Wellcome Sanger Institute. 

La sfida è comprendere come mai la natura si comporti in modo controintuitivo.  La statistica, infatti, dovrebbe essere a sfavore delle specie di grandi dimensioni. «Immaginiamo che le cellule siano  dei biglietti della lotteria: più se ne hanno, maggiori sono le possibilità di vincere un jackpot che, in questo caso, è il cancro. Quindi se un animale possiede un numero di cellule mille volte superiore a quello di un essere umano, allora dovrebbe  avere un rischio di sviluppare il cancro di mille volte superiore», ha dichiarato Simon Spiro, ricercatore della Zoological Society of London.  

Le balene, per esempio, hanno diversi milioni di cellule in più rispetto agli esseri umani ma alcune specie possono arrivare anche a 200 anni di età. 

Gli elefanti sono meno longevi, con una vita di media di 70 anni, ma rappresentano comunque una eccezione alle teorie probabilistiche: hanno migliaia di cellule in più rispetto agli esseri umani, ciascuna potenzialmente in grado di innescare mutazioni all’origine del cancro, ma inspiegabilmente non corrono alcun rischio di sviluppare un tumore.

I ricercatori della Zoological Society of London hanno condotto analisi post-mortem sugli animali dello zoo di Londra deceduti per cause naturali. Sono rientrati nello studio solo i mammiferi, tra cui leoni, tigri, giraffe, furetti e lemuri. Dalle analisi genetiche è emerso che le specie più longeve accumulavano mutazioni a un ritmo più lento delle specie dalla vita media più breve. Per esempio, l’andamento degli esseri umani è di circa 47 mutazioni all'anno mentre nel topo se ne contano circa 800 all'anno. 

Tutto torna: i topi vivono infatti circa 4 anni, mentre l’aspettativa di vita di un essere umano è di 83,6 anni. 

L’associazione tra il tasso di mutazioni e la longevità era già emerso in uno studio del Wellcome Sanger Institute pubblicato su Nature esattamente un anno fa. Ora bisognerà scoprire come facciano le specie più longeve  a rallentare il tasso di mutazioni del DNA.

Inaspettatamente la risposta potrebbe arrivare più dagli insetti che dai mammiferi. Tra le formiche per esempio c’è una grande differenza nella longevità in base al ruolo sociale, nonostante il genoma sia lo stesso per tutti. La formica regina vive in media 30 anni mentre le formiche lavoratrici non superano i due anni di età. Si ipotizza che la formica regina possa contare su un migliore meccanismo di riparazione del Dna, ma potrebbero esserci altre ragioni ancora ignote. E scoprirle è l’obiettivo delle future ricerche.