Ma io faccio di testa mia…

Italiani e salute

Ma io faccio di testa mia…

di redazione
È ambivalente l’atteggiamento degli italiani nei confronti dell’informazione sulla salute. Sanno - e vogliono sapere sempre di più - ma poi non mettono in pratica le informazioni acquisite

Niente da fare: gli italiani non si convincono che farsi curare in un piccolo ospedale può essere rischioso. Con le innegabili e lodevoli eccezioni, ovviamente, ma le cifre parlano chiaro e dicono che laddove i volumi di attività sono minori, minori sono anche le competenze e l'esperienza di chi ci lavora. E questo accresce i rischi. 

Nonostante ciò, gli italiani non vogliono saperne di rinunciare e più di due su tre (67%) giudicano negativamente la chiusura dei piccoli ospedali soprattutto perché (44%) li ritengono un presidio importante.

Sono, questi, un paio di dati del Monitor biomedico 2014, l'indagine che il Censis conduce periodicamente nell'ambito del Forum per la ricerca biomedica, presentato lunedì 27 ottobre a Roma nella sede dell'istituto di ricerche.

A quanto pare, insomma, se da lunghi anni ormai non si riesce a convincere gli italiani che gli ospedali troppo piccoli è meglio chiuderli, come minimo deve esserci un difetto di comunicazione.

Trappola Facebook 

A proposito di comunicazione e informazione, il Monitor conferma il rinnovato interesse degli italiani per la salute sui media e soprattutto in internet. È vero infatti che il 70% degli abitanti della Penisola si considerano almeno sufficientemente informati sulla salute e che le due principali figure di riferimento rimangono il medico di famiglia (73%) e lo specialista (27%). Ma la quota di coloro che utilizzano internet come fonte di informazione sanitaria è ormai prossima al 42%. E, come ha fatto notare Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare del Censis, nell'illustrare la ricerca, la quota sale al 62,8% tra chi ha una laurea o un titolo di studio ancora superiore. Tra questi ultimi, comunque, prevale l'utilizzo del web per cercare informazioni e come strumento di accesso ai servizi (come la prenotazione di esami e visite, per esempio), mentre coloro che hanno un titolo di studio “intermedio” prediligono invece i social media. Un rischio non da poco, visto che l’attendibilità dell’informazione che circola in essi è spesso abbondantemente al di sotto della soglia di sufficienza.

Non solo: gli italiani che almeno qualche volta traducono in comportamenti le informazioni acquisite dai media (oltre internet anche tv, radio e giornali) sono balzati dal 30% che erano nel 2012 al 48% nel 2014; si tratta prevalentemente dell'acquisto di integratori e vitamine (35%) e farmaci (25%), ma anche di cambiamenti nello stile di vita (26%).

A confermare che c'è ancora molto da fare sul fronte dell'informazione alla popolazione ci sono almeno un altro paio di dati del Monitor Censis.

Per esempio, quello secondo cui sono diventati il 54,5% nel 2014 (dal 42% del 2012) coloro che temono il rischio di confusione da eccesso di informazioni. E, probabilmente, dovrebbe dire qualcosa anche il fatto che se è vero che nel 2014 il 42% degli italiani ha comprato più farmaci equivalenti (i "generici") che di marca, è altrettanto vero che coloro che preferiscono il medicinale di marca sono aumentati dal 35% del 2012 al 45% del 2014.

Un dato non proprio rassicurante, poi, è quello dell'aderenza alle terapie. Nonostante la fiducia nel medico, infatti, quando la malattia non è particolarmente grave solo un po' più della metà degli italiani (il 57%) segue scrupolosamente le sue prescrizioni quanto a durata e dosi. E anche in caso di patologie gravi c'è un malato su dieci che fa comunque come gli pare.

Tra paura e rabbia

I tumori continuano a essere di gran lunga le malattie che fanno più paura agli italiani (63%) nonostante gli innegabili progressi di diagosi e cure (problemi di comunicazione?), seguite da quelle che rendono non autosufficienti (31%), dalle cardiovascolari (28%) e da quelle neurologiche (26%). Per fortuna, l'idea di prevenzione sembra farsi strada: il 43% fa controlli medici una o due volte l'anno e il 14% li fa con ancora maggiore frequenza, nonostante la grave congiuntura economica faccia sentire i propri effetti. Così più della metà degli italiani (53%) nell'ultimo anno si è rassegnato a sopportare tempi di attesa più lunghi per accedere alle prestazioni sanitarie in strutture pubbliche, mentre poco meno della metà (48%) si è rivolto direttamente al privato. Due su tre, poi, hanno pagato di tasca propria, soprattutto per i ticket sui medicinali (66%) e le visite specialistiche (45,5%) oltre che per prestazini odontoiatriche private (45,5%).

Quello sui ticket, in particolare sui farmaci, è un capitolo con diverse note dolenti. Ai medicinali gli italiani attribuiscono infatti un ruolo importante e il giudizio sulla copertura offerta dal servizio sanitario pubblico è ancora complessivamente positivo. Però aumentano coloro che ritengono insufficienti i farmaci garantiti dal Ssn: 35% oggi contro il 31% del 2012. Per il 45% degli italiani, poi, il ticket è una tassa iniqua, per il 22% uno strumento inutile e non più del 33% lo ritiene utile a limitare l'acquisto di farmaci.

Addio servizio sanitario

Infine, si va sempre più diffondendo l'opinione che la qualità dell'assistenza sanitaria pubblica si stia abbassando. Quasi la metà degli italiani (49%) ritiene inadeguati i servizi offerti dalla propria Regione, ma la media è il frutto di un grande divario tra aree diverse del Paese: al Nord-Est la quota scende al 27,5% per impennarsi al 72% nel Meridione. Gran parte della responsabilità del peggioramento è attribuita alla lunghezza delle liste d'attesa (64%). Nel complesso, comunque, la maggioranza ritiene che negli ultimi due anni il Servizio sanitario della propria Regione sia rimasto sostanzialmente invariato, ma il 38,5% dichiara invece un peggioramento, anche in questo caso soprattutto nel Meridione (46%). E cresce così il numero di coloro che eviterebbero di attribuire alle Regioni maggiori responsabilità nella sanità: erano il 30,5% nel 2012, sono saliti al 36% di oggi.