Schizofrenia, guarire si può

Medicina

Schizofrenia, guarire si può

di redazione
È una tra le psicosi che potrebbe essere efficacemente trattata se diagnosticata per tempo e curata appropriatamente. Una survey traccia i profili dei pazienti e di chi se ne prende cura. Il Progetto Triathlon per sostenerli nel percorso di cura e per superare lo stigma che ancora segna la patologia

Solo una persona con schizofrenia su dieci utilizza qualche strumento tecnologico per ricordarsi di assumere la terapia. E siccome sono numerosi i pazienti che ammettono di dimenticare di farlo, molto spesso sono i caregiver familiari (55% dei casi) o gli operatori sanitari (50%) a farsi carico di rammentarglielo.

A tracciare questo dettaglio del quadro della schizofrenia è Addressing misconceptions in schizophrenia, survey realizzata a livello europeo che nel nostro Paese ha coinvolto ottanta persone, venti delle quali pazienti, i cui risultati sono stati presentati martedì 11 ottobre a Milano.

In Italia si calcola che vi siano quasi 213 mila persone che vivono con una diagnosi di schizofrenia e si stima, però, che ve ne siano altre 90 mila circa alle quali la patologia non è stata diagnosticata e che pertanto non stanno seguendo alcuna cura farmacologica; delle prime, peraltro, poco meno di 152 mila sono in trattamento con farmaci antipsicotici. Ed è un vero peccato perché oggi, come hanno detto gli esperti durante l'incontro milanese, dalla schizofrenia si può guarire, soprattutto se viene individuata precocemente. Senza contare i suoi costi economici che ammontano a qualcosa come 2,7 miliardi di euro, quasi la metà dei quali indiretti (perdita di produttività dei pazienti e dei familiari); tra i costi diretti, l’81% è assorbito da ospedalizzazione, residenzialità e assistenza domiciliare, mentre il trattamento farmacologico pesa per il 10%.

Tornando alla survey, realizzata da Janssen, la metà (50%) dei pazienti italiani che vi hanno partecipato ha un’età compresa tra i 31 e i 50 anni, il 35% tra i 18 e i 30 anni. Insomma, una patologia “giovane”. Di conseguenza, giovani risultano anche i caregiver (quasi tre su quattro, il 72%, ha tra 28 e 50 anni), che proprio nel pieno della loro vita si trovano a dover gestire l’assistenza, i trattamenti e l’impatto della malattia sulle attività quotidiane del paziente. Non per caso, dunque, dalla ricerca emerge che la preoccupazione maggiore dei caregiver riguarda proprio quest’ultimo aspetto: due su tre (il 63%) ne temono gli effetti “destabilizzanti” sul corso ordinario delle attività e si mostrano preoccupati per il lavoro, lo studio, le attività sociali del paziente. Un altro tra gli aspetti problematici nella gestione della schizofrenia emerso dalla survey riguarda la gestione e l’adesione alla terapia: un paziente su quattro (il 25%) ammette di dimenticare spesso di assumerla e uno su tre (31%) che gli accade qualche volta. D'altra parte altri dati dicono che la cura farmacologica è la strategia principale per la quasi totalità dei pazienti (80%), ma meno della metà (43%) esprime soddisfazione per le terapie assunte e c'è un uso ancora limitato (19% dei pazienti) di terapie, come quelle iniettive a lunga durata d’azione, che potrebbero permettere una maggiore autonomia del paziente e quindi una migliore gestione della dimensione sociale.

«I dati che emergono da questa indagine fanno capire quanto sia importante intervenire tempestivamente, oggi più che mai» commenta Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip). «Dati recenti – prosegue - ci dicono che questi pazienti arrivano nei Dipartimenti di salute mentale dopo un periodo medio di sette anni: troppi, se consideriamo che in un periodo così lungo la malattia peggiora, con conseguenze sulle condizioni del paziente e sulla qualità di vita del paziente stesso e della sua famiglia. Inoltre, un intervento efficace dovrebbe essere coordinato e integrato tra le parti: solo così può portare a una reale riabilitazione e al reinserimento nella società».

Proprio per rispondere a queste esigenze, nei mesi scorsi è stato lanciato il progetto “Triathlon”, promosso da Janssen in partnership con le Società di psichiatria, di psichiatria biologica (Sipb), di Neuropsicofarmacologia (Sinpf), la Fondazione Progetto Itaca, Onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna) e la Federazione italiana triathlon (Fitri). Un programma per promuovere il recupero e il reinserimento dei pazienti attraverso un approccio integrato, basato sul coinvolgimento di tutte le figure chiave dell’assistenza, lungo tre dimensioni fondamentali: clinica, organizzativa e sociale. Da febbraio a oggi ha già coinvolto quaranta Dipartimenti di salute mentale (il 20% del totale, in pratica un Dsm su cinque) e circa 3 mila operatori sanitari. «Tra le nostre innovazioni – sostiene Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Janssen Italia - ci sono sicuramente quelle che hanno cambiato il paradigma terapeutico di questi disturbi nel corso della storia della Medicina. Così come oggi stiamo studiando nuove soluzioni che speriamo possano rappresentare, nel prossimo futuro, passi in avanti altrettanto importanti».