Sliding doors: quelli che entrano ed escono dall’ospedale

Chirurgia

Sliding doors: quelli che entrano ed escono dall’ospedale

di redazione
Circa un paziente su dieci è costretto a un nuovo ricovero entro un mese dalle dimissioni. Particolarmente interessati al fenomeno quanti si sono sottoposti a un intervento chirurgico. Ma le cose migliorano

Un’infezione o un’emorragia, tempi di degenza troppo contratti necessari per ottimizzare le spese del reparto, la comparsa di dolori poco spiegabili.

Le cause possono essere le più disparate, ma l’esito è sempre lo stesso. Per una proporzione variabile tra il 9 e il 15 per cento dei pazienti italiani che sono ricoverati in ospedali, prima della scadenza del trentesimo giorno dalle dimissioni, scatta la necessità di correre di nuovo in pronto soccorso e, spesso, di essere ricoverati nuovamente. 

In gergo tecnico vengono chiamate “riammissioni” e rappresentano uno dei parametri di efficienza di un reparto e di un ospedale. 

Ebbene, in Italia, di pazienti costretti a fare la spola tra casa e ospedale ce ne sono circa 16 mila ogni anno: sono vittime di un fenomeno «che è stato chiamato “Sindrome da porta girevole” e ne sono particolarmente a rischio gli anziani», spiega Francesco Corcione, presidente eletto della Società italiana di chirurgia, a congresso a Roma sino al 15 ottobre. 

Un fenomeno che non riguarda solo l’Italia: «Un recente studio effettuato su oltre 2 di pazienti americani pubblicato su Health Affairs ha riscontrato come quasi un paziente anziano su 5 torni al Pronto soccorso dopo un intervento chirurgico», aggiunge Corcione. «Il 17,3% “solo” una volta e il 4,4% più volte nei 30 giorni successivi».

Meglio è possibile

Si tratta di un male quasi necessario, ma che in qualche modo può essere limitato. Lo dimostrano anche recenti casi italiani: «si è visto che il tasso di complicanze dopo un intervento alla colecisti eseguito in laparoscopia e quindi con tecniche mini-invasive è sceso dal 2,28% del 2010 all’1,52% nel 2012», precisa il chirurgo. Un segno, insomma, che laddove si interviene in maniera oculata i risultati non tardano a venire. 

Gli strumenti non mancano. La chirurgia da sempre studia il modo per ridurre quanto più possibile gli inconvenienti: check list scrupolose, tecniche chirurgiche impeccabili e standardizzate, uso di strumenti avanzati in sala operatorie per il controllo delle complicanze, selezione dei pazienti da trattenere in terapia intensiva. 

Ma anche attraverso la creazione di una maggiore sinergia tra l’ospedale e l’assistenza sul territorio. «Un paziente chirurgico - spiega Corcione - è comunque più fragile, ha modificato le proprie abitudini, è stato allettato, ha ricevuto farmaci e altri medicamenti che possono alterare le condizioni fisiche e cognitive che aprono la strada ad una nuova patologia o a un malessere che non si esaurisce con la convalescenza e che necessita di ulteriori cure».

Il ruolo dell’innovazione

Nessuno dei risultati ottenuti fino ad oggi in chirurgia sarebbe stato però possibile senza una costante innovazione. 

Basti pensare a come la ricerca farmaceutica abbia reso possibile realizzare interventi quasi senza sangue. Per limitare le emorragie, a volte, non basta la sola abilità del chirurgo o le tecniche convenzionali ma bisogna ricorrere a dispositivi e/o farmaci che favoriscano e accelerino alcuni dei naturali processi fisiologici dell’organismo come l'emostasi, ossia il processo riparativo che prevede la coagulazione del sangue e la riparazione delle ferite. 

L’introduzione di dispositivi medici emostatici a base di collagene ha rappresentato negli ultimi anni un’efficace risposta alle necessità del chirurgo in sala operatoria quando il controllo delle emorragie tramite pressione, legatura o procedure convenzionali risulta essere inefficace o non praticabile.

«La chirurgia si orienta sempre di più verso una minore invasività a beneficio del paziente», dice Francesco Corcione. «Per far questo il chirurgo ha bisogno dell’ausilio tecnologico, attraverso device e strumenti che possano consentirgli di portare a termine interventi molto delicati.  In chirurgia “open” esistono diversi sistemi per bloccare un’emorragia. In quella meno invasiva, al contrario, si necessita di ausili innovativi. Avere a disposizione strumenti di questo tipo significa avere più opportunità e possibilità di una buona riuscita dell’intervento chirurgico a totale beneficio del paziente». 

Un beneficio che si riflette positivamente anche sulla società. «In questo caso infatti – prosegue Corcione - innovazione si traduce anche in riduzione dei giorni di degenza e di necessità di re-interventi a seguito di eventuali complicanze. In una parola: più risparmio per le casse del servizio sanitario nazionale».