La grande fuga dall'Italia. Ora tocca ai chirurghi

SCENARI

La grande fuga dall'Italia. Ora tocca ai chirurghi

di redazione
È in atto una vera e propria emorragia di chirurghi che tra dieci anni rischia di svuotare le sale operatorie italiane

La battuta è facile per chi un minimo frequenta i cinema: l'Italia «non è un Paese per chirurghi!». A farla è uno che non sappiamo se frequenti le sale dei cinema, ma di certo frequenta assiduamente quelle operatorie: Francesco Corcione, presidente eletto della Sic, la Società italiana di chirurgia, che in questi giorni è a congresso nella Capitale. «Ormai – precisa Corcione - formiamo risorse che cercano fortuna all’estero. Una lenta ma inarrestabile emorragia che presto mostrerà i suoi effetti».

Per dare un'idea del fenomeno basta qualche cifra: in Italia nel 2010 il numero di assunti di ruolo in chirurgia generale ha coperto solo il 10% del fabbisogno e il 20% nella chirurgia specialistica. Situazione analoga nei reparti dove nel 2011 mancavano all’appello 8.800 medici che, secondo alcune stime, diventeranno 22 mila nel 2018 e 34 mila tra soli dieci anni. Ma il paradosso è che entro il 2020 ualcuno prevede che ci saranno ben 12 mila camici bianchi “a spasso” (vedi https://www.healthdesk.it/sanit/entro_il_2020_12_mila_medici_disoccupati...).

«Le ragioni sono molteplici – spiega Corcione - da quelle personali e professionali a quelle organizzative. Le scuole di non riescono a riempire i posti a disposizione: negli ultimi anni abbiamo assistito a un calo di iscrizioni del 30%. Diventare chirurgo non è più un sogno per i giovani medici: un laureato in Medicina, tra specializzazione e precariato, inizia a guadagnare ben dieci anni dopo i suoi “colleghi” in Ingegneria o Giurisprudenza».

Negli Stati Uniti, sottolinea il presidente eletto Sic, il percorso formativo è più breve: quattro anni per la laurea, cinque di internato e due di specializzazione per diventare chief resident (ce la fa uno su dieci). E alla fine dei sette anni trascorsi “sul campo” lo studente americano ha eseguito circa 2 mila interventi con una rotazione obbligatoria nelle varie specialità. Invece, uno specializzando italiano alla fine del processo formativo ha lavorato su cartelle cliniche e interventi minori e si avvia una vita da “precario”. Per tacere il fatto che talora gli specializzandi vengono utilizzati per supplire alla carenza del personale di ruolo, esponendoli a rischi professionali. Questo perché vengono stipulati pochissimi contratti a tempo indeterminato (nel 2011 coprivano solo il 15% del fabbisogno) a causa di tagli, errate valutazioni del fabbisogno da parte delle Regioni e blocco dei contratti in quelle sottoposte a Piani di rientro.

Anche a livello economico i medici e i chirurghi italiani non trovano vantaggi rispetto ai sacrifici richiesti: in Italia uno specializzando guadagna la metà di un collega inglese (1.750 euro contro 2.500 sterline) che ha anche prospettive di crescita importanti negli anni successivi, considerando che medico che opera in un ospedale pubblico guadagna tra i 100 e i 250 mila euro l’anno.

Ricevere una denuncia nel corso della carriera è invece praticamente una certezza per i medici italiani: l'80% deve difendersi, salvo essere assolti nove volte su dieci.

«Un quadro già critico, il “paziente Ssn” è già in terapia intensiva – avverte Corcione - ma a farne le spese è sempre l’utente finale: tra dieci anni e con quasi 30 mila medici in meno il sistema non sarà più in grado di rispondere alla domanda di assistenza, limiterà l’accesso alle cure e allungherà esponenzialmente le liste d’attesa». Con il risultato che «entro dieci anni – prevede ancora il presidente eletto Sic - assisteremo a un progressivo peggioramento della salute dei cittadini» a discapito principalmente delle fasce più fragili e povere come le famiglie con bambini, gli anziani, i soggetti con malattie croniche, le persone con bisogni speciali.

«Di questo passo, tra dieci anni non avremo più chirurghi formati ed esperti – conclude Corcione - e saremo costretti ad assumere chirurghi provenienti da Paesi dell'est o dei Paesi in via di sviluppo con conseguenze facilmente immaginabili».

E mentre gli uomini abbandonano il bisturi sul tavolo operatorio e prendono valigia e passaporto, emerge un piccolo esercito di “chirurghi in rosa”: in dieci anni infatti, le donne iscritte alle scuole di specializzazione in Chirurgia sono aumentate dall’8% del 2001 al 50% del 2010.